
Appena il profumo la sfiorò, le narici di Antonia fremettero. Era caldo, metallico e intriso di un’eco antica, qualcosa che strisciava sotto la pelle e vi si annidava come un sussurro blasfemo. Rivolse lo sguardo nella direzione da cui proveniva, e la luce morente della luna affondò nei suoi occhi neri, vuoti come orbite scavate nella pietra. Le sembrò di vedere quell’odore: una scia purpurea, serpeggiante tra i vicoli umidi di una Roma che pulsava come una ferita mai rimarginata.
Sollevò il mento e inspirò , lasciando che quel miasma di sangue divino le bruciasse la gola. Era inebriante, un richiamo viscerale che le graffiava la mente. Chiunque fosse il maschio che stava versando quel nettare sacro, quella sera non avrebbe avuto redenzione. Antonia fece scivolare la lingua sulle labbra, assaporando un sapore che ancora non aveva toccato. Era la sua ultima notte da Recuperatrice, e forse avrebbe potuto ignorare quel richiamo. Ma non lo fece. Il suo corpo vibrava di un'urgenza elettrica, come se fosse attraversato da una corrente primordiale.
Doveva raggiungerlo. Doveva scoprire chi stava sfidando le leggi antiche.
E il maschio sarebbe morto.
Non c'era misericordia per chi infrangeva il Patto. Non c'erano appelli, solo la lama e cenere. Antonia scattò avanti, un'ombra tra le ombre, con la ferocia di una bestia in caccia e la grazia dell'oscurità che danza nella penombra. I vicoli la inghiottivano e la lasciavano andare con la stessa indifferenza con cui Roma aveva sempre accolto i suoi mostri. Poche centinaia di metri ed eccolo: il suono umido e osceno dello strappare carne viva, un grugnito sordo, l'agonia soffocata di una vittima già troppo lontana dalla salvezza.
Quando lo raggiunse, estrasse il Nam-Us, il pugnale rituale dalla lama nera come il peccato e affilata come il ricordo del dolore. La sua superficie intarsiata catturò la luce tremolante di un neon morente, riflettendo schegge di follia e una promessa di morte. Conosceva bene la sensazione di affondarlo nella carne, il fremito delle ossa che si spezzavano sotto la spinta decisa fino a toccare l'elsa. Sarebbe stato rapido. Definitivo.
Ma proprio mentre il colpo stava per abbattersi, qualcosa la fermò. Un istinto, un sussurro nell'oscurità della sua anima. La figura china davanti a lei non era quella che si aspettava.
Antonia abbassò la lama, i muscoli tesi come corde pronte a spezzarsi. Davanti a lei, una ragazza dal collo sanguinante. Non una vittima. Non più. Si stava cibando del vampiro che l’aveva aggredita, strappandogli la carne con la furia disperata di chi non vuole morire. Il sangue colava dal suo collo squarciato, un rivolo vermiglio che pulsava come se fosse ancora vivo. Il profumo che l'aveva attirata emanava proprio da lì: quel nettare impuro, divino e corrotto.
Antonia abbassò lo sguardo sul corpo martoriato ai suoi piedi. Un dingir giovane, fresco di Conservarium. Che fine miserabile. Nessun onore. Nessuna gloria. Solo carne strappata e sangue versato sull’asfalto gelido.
«Stai indietro.» La voce di Antonia fu un sibilo che non lasciava spazio a repliche.
Sollevò le labbra sui canini affilati. La sua mente analizzò ogni dettaglio, ogni variabile di quella notte maledetta.
Le Recuperatrici ripulivano il disastro lasciato da maschi incapaci di domare i propri istinti. Ma stavolta era diverso: la vittima aveva già completato il lavoro. Ciò significava una sola cosa... la ragazza era incinta.
Solo questo avrebbe potuto salvarla dal morso letale di un dingir. Anctonia lo sapeva meglio di chiunque altro: il Conservarium stabiliva le leggi sulla riproduzione da secoli.
Ogni trasgressione era punita con la morte. Antonia avrebbe voluto che quella fosse un'ultima notte tranquilla, ma il destino non le aveva mai concesso tregua. Imprecò tra i denti, un suono gutturale che si perse tra le ombre dei vicoli.
Sapeva cosa doveva fare.
Si piegò sulle ginocchia, affondando il Nam-Us nel petto del maschio a terra. La lama rituale penetrò la carne con un suono umido e sordo. Dal punto d'impatto, il corpo si dissolse in una fiammata blu, lasciando dietro di sé solo polvere e frammenti metallici anneriti.
Fu allora che la ragazza si scosse, come se si svegliasse da un incubo. I suoi occhi verdi brillarono come fari spettrali, spalancati su un volto imbrattato di sangue. Antonia distolse lo sguardo per soffocare ricordi che sapevano di morte e terrore, sepolti sotto strati di indifferenza costruiti a fatica.
Sentiva l'odore degli umani nelle vicinanze. Non c'era tempo da perdere. Si avvicinò, strappò un brandello di stoffa dal vestito della ragazza e glielo passò sul volto.
«Il tuo bambino starà bene» mentì, la voce priva di calore.
Ma la verità era crudele: sarebbero morti entrambi. Dopo il contagio l'assistenza doveva essere immediata, e il tempo era già scaduto. Forse avrebbe potuto portarla al Conservarium, affidarla alle matrone, ma sapeva che trascinarla in quello stato significava rischiare la propria vita.
L'alternativa era semplice. Rapida. Definitiva.
Antonia strinse il pugnale, sollevandosi in piedi. La ragazza iniziò a piangere, un suono fragile che si spezzava nell'aria densa di disperazione.
Era già morta. Antonia lo sapeva. Lei stessa era un epitaffio vivente, testimone di troppi destini infranti.
Quante volte aveva desiderato che qualcuno fosse stato così misericordioso da tagliare la gola anche a lei, risparmiandole quella falsa sopravvivenza? Ma nessuno l'aveva fatto. Nessuno aveva avuto quella pietà.
«Aiutami, ti prego. Aiuta la mia creatura.»
«Stai zitta» ringhiò Antonia, la voce bassa e graffiata dal gelo dell'indifferenza.
Voleva affondare i denti, succhiarle via l'ultima goccia di vita. Non poteva sopportare quella presenza fragile, quell'alito caldo, quella supplica. Tutto in lei sembrava essere stato creato per ricordarle il mostro che era diventata.
Uccidila, urlò la sua mente, un comando sepolto sotto strati di odio e memoria.
Antonia deglutì, sentendo i denti premere contro le gengive, un dolore familiare che pulsava. Un'eco della sua vera natura.
Tanto è già morta, Antonia. Lo sai anche tu, è questione di minuti. Cibati di lei e poi falla sparire.
La voce nella sua testa era una lama sottile, affilata dal tempo e dalla sopravvivenza.
«Aiutami» gemette la ragazza, le labbra impastate di sangue, muco e lacrime, un miscuglio vischioso di disperazione umana.
Antonia abbassò le palpebre, serrando la mascella fino a sentire un lieve scricchiolio nelle ossa. Non voleva essere pari a quella feccia che aveva appena ridotto in polvere. Quella ragazza, a differenza sua, non aveva scelto il proprio destino. Aveva diritto a una possibilità.
Rinfoderò il Nam-Us, ignorando il richiamo viscerale di un pasto facile.
«Vieni con me» sibilò, tendendo una mano guantata sporca di polvere e sangue.
La giovane esitò, tremando. Antonia non poteva biasimarla, sapeva cosa stava guardando. Il nero assoluto dei suoi occhi, la pelle cinerea, senza età e la crudezza di ogni tratto della sua espressione. Tutto quello che restava della sua umanità erano i capelli rosso-fuoco e l’apparire del suo corpo. slanciato e sinuoso come quello di una donna, ma forte e crudele come quello che era: un mostro.
«È l'unico modo per salvare il tuo bambino» sussurrò Antonia, la voce rotta da una nota di qualcosa che avrebbe potuto essere compassione, se fosse stata ancora capace di provarla.
Sul volto della ragazza si disegnò un'espressione vuota, lo sguardo perso oltre l'orizzonte della consapevolezza. Forse era già tardi. No, lo era di certo. Antonia stava per ritrarre la mano, accettando l'inevitabile, quando la ragazza la afferrò.
Bene.
Il conto alla rovescia era iniziato. E il tempo non era dalla loro parte.