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CAPITOLO 1

Roma, 2025

Ho sedici anni e un nome di merda.
«Lilia, mangia che fai tardi a scuola.»
Fa schifo anche a mia madre, motivo per cui continua a inventare diminutivi ancora più imbarazzanti.
«Liliana, mi hai sentito?»
«Non sono sorda.»
Rompipalle, aggiungo, senza dirlo a voce alta.

Metto in bocca mezzo biscotto, mentre lei si lega i capelli fulvi in una coda di cavallo.

«Devo accompagnare anche tuo fratello. Non posso fare tardi al lavoro tutti i giorni.»

So che andrà avanti così per tutto il viaggio, quindi lancio uno sguardo d'intesa al nano biondo che siede accanto a me. Lui mi ricambia con un sorriso sporco di cioccolata che riesce a far inarcare anche le mie labbra. 

«Tranquilla, prendo l'autobus.»

Getta le tazze alla rinfusa nel lavandino. «Buona idea, così porto l'auto a riparare.»

Con i soldi dell'assicurazione di mio padre, ha comprato una di quelle a guida automatica. Una Tesla, per l'esattezza. Lui avrebbe approvato, gli piacevano le novità tecnologiche. La sera che è morto guardava un programma sulle intelligenze artificiali. Salvezza o dannazione del genere umano? A me sembra più la seconda, visto che si guasta in continuazione. Lui non saprà mai la risposta, ma non ne morirà, giusto?

Provo a farmela andare bene, con questi pensieri idioti. Ma non è facile.

Papà mi piaceva. 

Quella sera ero seduta accanto a lui, sul divano. Credevo si fosse addormentato con il telecomando in mano. 

È successo un paio di anni fa. Mi sembra ieri ma, allo stesso tempo, mi pare che sia già passato un secolo. Ricordo ogni dettaglio. La mia terapista dice che è una sensazione normale quando si elabora un lutto.

Afferro lo zaino e me lo butto sulla spalla.

«Ciao, io vado.»

Esco di casa e l'aria fresca del mattino mi solleva i capelli. Non so da chi li abbia presi, così scuri e lisci. Insieme agli occhi dello stesso colore, fanno di me la ragazza anonima perfetta. Niente da segnalare. Calma piatta, in tutti i sensi.

Attraverso il cortile ed evito lo sguardo della condomina che penserà che io sia maleducata a non salutarla. Chi se ne importa. 

Tanto, abito in un quartiere pieno di vecchi a cui non sta mai bene niente. La mia è una zona ai margini del centro in cui c'è tutto quello che serve, a parte un locale decente o qualunque altro ritrovo per ragazzi.

Cammino in fretta fino alla fermata. Premura inutile, visto che dopo venti minuti sono ancora lì a riflettere sul senso della vita. Per completare il quadro, il cielo si copre di nuvole grigie e lascia cadere alcune gocce di pioggia fini e acuminate come spilli. In pochi minuti, la strada diventa scura e lucida, sollevando l'odore di asfalto bagnato e polvere tipico di questa città.  La gente corre sotto le tende del bar e gli alberi vicini,  così rachitici, che a stento riescono a offrire un po' di riparo. 

Una ragazza si mette una cartellina sulla testa e mi raggiunge sotto la copertura della fermata. 

«Otto, tre, emme, due» mi dice, distogliendomi dall'ultimo inutile video di TikTok. 

«Scusa?»

«È già passato l'803?» mi chiede, con un bel sorriso. 

Beata lei che già alle sette e mezza di mattina è posseduta dalla gioia di vivere. 

Le indico il cartello. «Qui passa solo il 715.»

«Oh, ho sbagliato fermata. Beh, grazie.»

Rimette la protezione arrangiata sui capelli e se ne va quasi di corsa, sparendo dietro l'angolo. 

«Scusa per la brutta notizia» mormoro, con un filo di disinteressato sadismo. 

Fra l'altro, non so nemmeno dove passi quell'autobus. Mai visto quel numero in zona. Ma dopo altri dieci minuti vedo il mio, per fortuna. La spalla è diventata di marmo, dentro lo zaino c'è il vocabolario di greco che pesa un quintale. 

Salgo e spengo il cervello fino alla mia fermata. Prima di arrivare davanti al mio liceo, il bus fa il giro della città, ma forse sono riuscita ad arrivare in tempo.  Sbadiglio, raccolgo la cartella e scendo. Cammino verso il mio liceo senza pensare a nulla. Forse per questo noto un nuovo murale sulla parete annerita che divide un bar da una frutteria. 

Ottocentotrè. 

Dovrei giocare questo numero, magari divento miliardaria. Ma poi, perché uno avrebbe dovuto prendersi la briga di buttarci un discreto numero di bombolette spray per disegnare una cosa del genere? 

«Ehi, Lilia... Ma lo hai visto oggi?»

Elena mi getta un braccio sulle spalle, aumentando il già considerevole peso della cultura che sto portando. 

«Ma chi?»

Sospira e solleva il mento verso un ragazzo alto, vestito di nero dalla testa ai piedi. 

«Emanuele...»

«Che stress, quello crede di essere una divinità per colpa vostra che gli sbavate dietro.»

Devo ammettere che non è male. Mi ricorda Tom Holland, ma con gli occhi azzurri. Non ci ho mai parlato, ma figurati se quelli del quinto si mettono a fare conversazione con le sfigate del terzo.

Elena si sistema la frangetta. Ha tinto i capelli di rosa sulle punte e ora il suo viso, dolce e un po' paffuto, sembra davvero quello di una bambola. 

«No guarda, quello è una divinità.»

«Certo, come no. Piuttosto, pensiamo a quelle che ci aspettano nella verifica di greco.»

«Ma va, tu sei un fenomeno.»

In effetti, da quando ho perso mio padre i miei risultati scolastici sono schizzati alle stelle. Di solito accade il contrario, ma forse il trauma ha innescato in me un incomprensibile istinto di sopravvivenza. 

Anche quella mattina, la versione non è un problema. Quasi non sfoglio il vocabolario, se non per reperire un assurdo aoristo mai visto prima. 

Consegno un'ora prima e chiedo il permesso di andare in bagno. Ho bisogno d'aria. 

Ecco, questa è una cosa che mi capita sempre più spesso. A volte, mi sento chiusa in una scatola e ho l'impressione che i miei polmoni diventino di pietra. 

Inutile dire che la psicologa ha attribuito questo sintomo al mio dolore represso. Dice che il fatto di non aver pianto ha creato un groviglio di emozioni inespresse nel mio inconscio. Non le credo del tutto, ma la scienziata è lei. Quindi mi limito ad annuire ogni volta che mi da queste spiegazioni. 

Mentre raggiungo il fondo del corridoio, controllo il cellulare. 


Stasera non torno, mi scrive mia madre. Ho lasciato Luca da zia. 

Buon divertimento, le rispondo. 

Doppio turno. 

Ora si chiama così. 

Smettila, Lilia. 


La prendo in parola e rimetto in tasca il telefono. Mentre lo faccio, il mio sguardo incontra quello della cosiddetta divinità. 

Emanuele è accanto alla finestra e soffia una nuvola di vapore fuori dallo spiraglio. Mi fermo e schiudo le labbra per lo stupore. Sta fumando, in completo disinteresse di ogni regolamento scolastico. 

Senza fare una piega, rimette la sigaretta elettronica in tasca e viene verso di me. 

E mi oltrepassa.

Bravo cuore che hai iniziato a battere come un cretino. Ora con che coraggio ammettiamo di averci creduto?

Appoggio una spalla contro un armadietto e prendo un respiro, con la stessa determinazione con cui tento di recuperare la mia autostima.

«Ma tu guarda» sibilo. «Nemmeno mi piace, questo.»

Sposto lo sguardo sulla serratura scassata dell'armadietto. Ottocentouno. Poi c'è l'ottocentodue e, ovviamente, l'ottocentotrè.

Non ci avevo mai pensato ma, in effetti, tutti hanno un otto davanti. I cassetti nelle classi hanno un cinque, quelli negli spogliatoi un tre. In presidenza, un uno. Sarei andata avanti, se di nuovo quel numero non avesse catturato la mia attenzione. Mi avvicino allo sportello metallico.  È chiuso. 

Me ne sarei andata. Sicuro che me ne sarei andata, se non avessi notato i tasti girevoli dove va inserita la combinazione. Numeri e lettere, certo. Il mio è il numero 849 e la combinazione è zero, nove, acca, bi.

Non so nemmeno perché la provo, ovvio che non funziona. 

Mi guardo intorno come una ladra. I collaboratori scolastici stanno chiacchierando dall'altra parte del corridoio, davanti alle scale. Un senso di urgenza mi assale, come se sapessi cosa fare, ma non lo sto facendo.

Mi sa che il mio trauma ha fatto più danni di quanto pensassi. Va bene, calma. Devo solo pensare un attimo e...

«Otto, tre, emme, due.» Inserisco il codice nello stesso momento in cui lo pronuncio. 

«Oddio» mormoro quando lo sportello si sblocca. «Ma che cazzo...»

Imprecare non è mia abitudine, ma questo è troppo. Come facevo a saperlo?

Le mani mi tremano. Vorrei che fosse vuoto, forse lo è e la storia finisce qui. Sì, è vuoto per forza. 

Eppure, tutto avrebbe senso solo se non lo fosse. Davvero? No, no. Non avrebbe senso lo stesso. 

Ecco, vediamo. Lo sapevo, lo sapevo. 

C'è qualcosa. Una busta da lettera. Color crema, anonima, sigillata.

«A quest'ora non è permesso sostare nei corridoi.»

La voce del collaboratore scolastico mi raggiunge come un proiettile al centro del cuore. La busta mi cade dalle mani e la vedo appoggiarsi fra le mie scarpe da ginnastica. Chiudo l'armadietto e la raccolgo alla velocità della luce. 

«Sì, stavo andando in bagno.»

Non è che ci vado, mi precipito in bagno. Mi chiudo dentro con lo stomaco in gola e un infarto in corso. Chiudo il water e mi siedo. Osservo la busta tra le mie mani e so che non ho scelta. 

La devo aprire. 

Chi non lo farebbe?

Ma se la apro poi ci sarà scritto qualcosa… E poi che faccio? Lo so che mica potrò fingere che non sia successo.

 Comunque, non posso far finta di niente. Altrimenti l'avrei già buttata via questa maledetta busta. Di merda.

«Ma come sono finita in questo casino?» gemo, a fior di labbra.

Ok, non è un casino, per ora. Ne posso ancora uscire sana e pulita. Mi basta fare la cosa giusta. 

La apro. Eh, niente dai. 

La apro.

Editato da: Priscilla Gullotta

Instagram: @libriacuorleggero

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