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CAPITOLO 10

Non riesco a credere che sto per farlo davvero. Intendo: infilarmi in un condotto di aerazione del palazzo in cui dovrebbe lavorare mia madre.
Sento una leggera ansia, ma anche una terribile determinazione. Non mi era mai successo di sentirmi così viva.

Okay, la mia vita è diventata un casino, ma è come se fino adesso avessi vissuto in una scatola. Ora, le pareti attraverso le quali non riuscivo a vedere stanno cadendo.

Non c'è più un tetto, né un pavimento sotto i miei piedi. Fa paura, certo. E la sensazione è quella di cadere nel vuoto. Eppure, c'è qualcosa. Un richiamo all'azione, una necessità di guardare, di vedere la realtà delle cose. La verità può fare male, ma è la menzogna che uccide.

E io voglio vivere. Lo voglio più di ogni altra cosa. Fino in fondo, fino a svelare ogni segreto e illuminare ogni angolo oscuro della mia esistenza.

Non nego che la presenza di Emanuele abbia avuto la sua parte. Senza di lui, non so dove sarei adesso. Che poi, non so nemmeno se ha senso chiamarlo così. Quel nome e il corpo che vedo sono solo la maschera che indossa per me. 

Mi chiedo quante vite abbia vissuto, quante persone abbia incontrato. Amato, forse. Sono consapevole di essere una di queste, solo una delle innumerevoli forme di vita dispersa su uno dei tanti mondi che ha visto. 

«Lilia?»

Mi rendo conto di avere lo sguardo perso nel vuoto e mi affretto a rivolgere la mia attenzione verso di lui.

«Sì, ci sono. Ce la fai a smontarla?» gli chiedo, infilando le dita nelle scanalature della copertura.

«Fammi provare.»

Deve fare un paio di tentativi, ma alla fine viene via e lui si sporge per guardare dentro l'apertura. 

«Non si vede niente, vado prima io. Solo che...»

«Cosa?»

«Forse dovresti voltarti dall'altra parte.»

«Perché, devi spogliarti?»

Il che sarebbe l'ultimo dei problemi. 

«Questi non sono vestiti, ricordi? È solo il modo in cui mi mostro.»

Non riesco a decifrare la sua espressione. Non sorride più e sfugge il mio sguardo.

«Sì, l'ho capito. La memoria non dovrebbe essere un mio problema.»

«Giusto, scusa.»

«Non mi hai risposto.»

«È che devo mutare in una creatura che non è nei tuoi… standard.»

Vado dritta al punto. «Pensi che mi farai schifo?»

«Sì, in poche parole» ammette.

«Tu non puoi farmi schifo.»

Emanuele scoppia a ridere. «Vorrei abbracciarti.»

«Anche io.»

Ci guardiamo per un istante e mi accorgo del suo sguardo sulle mie labbra. Mi sembra di sentire quel contatto, ma lo temo nella stessa misura in cui sento di desiderarlo.

«Meglio pensare a come entrare.» Mi schiarisco la voce.

«Sì, giusto.»

Infila un braccio nel condotto, lo vedo allungarsi e scurirsi, come un serpente. Scivola dentro con un movimento sinuoso che, lo ammetto, mi fa rabbrividire. E se mutasse anche la sua personalità? E se un giorno mi ritrovassi accanto una creatura aliena che vuole cibarsi di me? Giusto, non sembra aver bisogno di mangiare. Questo dovrebbe essere abbastanza rassicurante.

Sospiro e mi concentro su quello che stiamo per fare. Una parte di me spera ancora di trovare mia madre a fare il lavoro più normale del mondo. Tuttavia, quello che ho scoperto fino adesso mi fa dubitare che sia così.

Mi bastano pochi minuti per diventare impaziente. Ma che sta facendo lì dentro?

Mi chino ed è solo per questo che riesco ad evitare qualcosa che saetta contro di me. Una… lingua?

Ho la bella idea di voltarmi e me ne pento in un attimo. Un tizio con una tuta nera scavalca il cornicione e salta sul terrazzo.  I suoi piedi sono nudi e palmati, così come le mani. Mi osserva con le sue pupille gialle e verticali, come quelle di un rettile. Ha i capelli rasati e questo peggiora il suo aspetto, già devastato da cicatrici simili a quelle dell’acne.

«Eccola la fuggitiva» sibila, come un serpente.

Termina la frase leccandosi le labbra con una lingua verdastra che avrei fatto volentieri a meno di vedere. Non posso credere che esistano persone così di cui nessuno è a conoscenza. Non posso credere che stiano cercando me. Mi attaccherà di nuovo e io non so cosa fare. Ho appena finito di formulare quel pensiero che la mia mente mi mostra un incredibile numero di possibilità. Sono del tutto impreparata di fronte a quella scelta e, ovviamente, faccio la più folle.

Tipo gettarmi a capofitto nel condotto. Tutto diventa nero, sbatto ovunque e mi ritrovo lo stomaco al posto della lingua. Bella fine gloriosa sto per fare. Il tempo della paura, però, dura un attimo. Atterro sul morbido, su una specie di ragnatela, almeno così sembra, visto che non vedo niente. Il cuore mi batte a tremila. Mi agito, ma mi sento stringere. Con delicatezza, però. Come in un abbraccio. 

«Emanuele? Sei tu?» sussurro, anche se mi sembra strano chiamarlo in quel modo, quando non ha una forma umana.

Non mi risponde, ma mi lascia scivolare verso il basso. Da alcune grate penetra una luce soffusa, sento il suono di passi. Ci sono altri condotti di aerazione che si diramano da quello in cui mi trovo. Nel frattempo, continuo a scendere sino a che non vengo sospinta in un condotto che si apre davanti a me.

È in penombra, segno che più avanti deve esserci un'altra grata. 

La forma nera prende le sembianze di Emanuele e ammetto che mi ci vorrà un po’ per abituarmi a questa cosa. Lui deve accorgersi della mia espressione, perché fa per scusarsi di nuovo.

«Mi dispiace, non immaginavo che saresti caduta.»

Mi mordo il labbro e mi scosto indietro i capelli che mi hanno inondato il viso. «No, no. La verità è che mi sono buttata.»

«Buttata? Perché?»

Gli racconto di quello che è successo e i tratti del suo volto si fanno tesi.

«Ti stanno col fiato sul collo e non badano a spese. È peggio di quanto pensassi.»

Mi asciugo il sudore freddo che mi bagna la fronte.

«Ma chi? La Sfinge o la Truesight?»

«Vuoi il mio parere? Entrambe.»

Il mio istinto mi dice che ha ragione. Mi sento al centro di una scacchiera in cui si sfidano due schieramenti. Il problema è che non so che mosse dovrei fare. Non so chi sono i miei amici e i miei nemici. Ancora una volta non posso fare a meno di chiedermi se anche Emanuele è davvero sincero con me. So troppo poco di lui.

«Come ti chiami davvero?» gli domando, a bruciapelo.

Schiude le labbra sorpreso. «Lo sai come mi chiamo.»

«In questa forma. Ma se dovessi darti un nome?»

«Lilia, non abbiamo tempo per questo.»

«Lo voglio sapere, Emanuele è solo una maschera. Qual è il tuo vero nome?»

«Non ho un vero nome.» Mi sembra davvero in difficoltà, ma si preme le dita sugli occhi, forse per trovare una risposta.

«Scegline uno.»

Abbassa lo sguardo e ho l’impressione che la sua mente sia catturata dai ricordi. «La maggior parte sono impronunciabili, ma per molto tempo mi sono riferito a me stesso come... Quod.»

Aggrotto la fronte. «È latino, ma si riferisce alle cose, non alle persone.»

«Non mi sono mai sentito davvero una persona.» Taglia corto. «Possiamo andare, adesso?»

Non so che replicare a quelle parole. Per me lo è, ma posso dire lo stesso quando non è in forma umana? Forse ha ragione, non capirò mai chi è veramente. Ammesso che possa dirsi qualcuno in particolare. Sto per impazzire e anche lui mi sembra sull’orlo di perdere la calma.

Un rumore sopra di noi mi fa sussultare.

Emanuele solleva lo sguardo e impreca a fior di labbra. «Resta qui, penso io all'uomo lucertola.»

 «Stai attento, se ti succedesse qualcosa...» Rimane fermo, come se volesse conoscere la fine della frase. 

Mi schiarisco la voce. «Intendo che....Stai attento, okay?»

«Sì, non ti muovere.»

Muta di nuovo e sparisce nel condotto. Resto in ascolto e per lunghi secondi non sento niente. Il mio cuore aumenta i battiti e mi trascino verso uno spiraglio di luce che intravedo alla fine del passaggio. 

È una grata da cui non si vede molto. Sento solo un suono  picchiettante. Mi sdraio sulla pancia per guardare meglio ed è allora che la vedo: quella è mia madre.

È seduta alla scrivania. I suoi capelli, di solito sparsi e ribelli, sono raccolti in una pettinatura impeccabile. Dall'angolazione in cui mi trovo vedo il suo profilo e le mani che saettano sulla tastiera. La sua postura è rigida e impettita. Molto diversa da come appare di solito.

Non vedo nessun altro nella stanza. A dire la verità avevo immaginato che lavorasse in una stanza piena di altri assistenti virtuali come lei. Che poi, sono persone vere, non IA, solo che la gente compra i loro servizi come segretarie. Studi legali, pezzi grossi del business, forse anche politici.

Forse mia madre ha una posizione per cui può avere una stanza tutta sua. Chi l'avrebbe mai detto, mi è sempre sembrata sbadata e poco organizzata. In effetti, poco adatta a fare la segretaria. Ora mi appare molto lontana dall’immagine che avevo di lei.

Il telefono che ha sul tavolo vibra. Risponde, ma non dice una parola. Un attimo dopo apre una schermata sul PC e digita una password.

Un rumore mi fa voltare di scatto. In un battito di ciglia, la forma nera e viscida si trasforma in Emanuele. Resta con la schiena appoggiata al condotto e i piedi appoggiati sulla parete metallica davanti a sé. Ha gli occhi chiusi e la fronte corrugata.

«Tutto… bene?» sussurro.

Solleva una mano, come se non fosse in grado di rispondermi. Schiude le labbra e solleva il mento. Solo in quel momento mi accorgo delle lacrime. 

«Ti prego, parlami.»

Si asciuga il viso con il braccio e si inumidisce le labbra. «Sono sensibile al dolore.»

«Sei… sei ferito?»

«No, non troppo.»

Si appoggia le mani sul volto e tira su con il naso. «Scusa, fra un attimo andrà meglio.»

«Perchè? Non hai niente di cui scusarti. Alan Watts diceva che non possiamo essere più sensibili al piacere senza essere più sensibili al dolore.» 

Lo dico di getto, chissà dove l’ho letto.

Accenna un sorriso. «Credo che questo tipo abbia ragione.»

Gli appoggio una mano sul braccio. Mio dio, sembra così reale. Possibile che lui sia solo un'illusione dei miei sensi? Se continuo a fare questi pensieri, penso che impazzirò. Non so chi è lui, chi sono io e ogni cosa si rivela diversa in modi che non so prevedere.

Fa scorrere le dita sul volto e appoggia di nuovo la nuca alla parete. «Comunque, ora conosci la mia debolezza.»

«Il dolore o il piacere?»

Solleva le sopracciglia e mi lancia uno sguardo divertito. Io, invece, avvampo. Ma che vado a chiedere?

Mi schiarisco la voce. «Intendo, qualcuna dovrai pur averne.»

Ammicca. «Anche più di una.»

Perfetto, non ne dico una giusta. Per fortuna che cambia discorso.

«Hai visto tua madre?»

«Sì, è seduta alla scrivania. Che facciamo adesso?»

«Devi incontrarla per chiederle spiegazioni, no?»

«Sì, anche se è strano trovarla lì a lavorare, mentre io sono sparita.» Quella deduzione mi fa rizzare i capelli sulla nuca. «Tu pensi che sia coinvolta?»

Stringe le labbra e la sua espressione mi fa presagire che è così.

«Perchè non me l'hai detto?»

«Nessuno dei due ne è certo. Muoviamoci prima che....»

Un sibilo e un suono gracchiante, come una scarica elettrica, risuona nella stanza. Mi sembra che qualcosa risucchi via tutto il sangue dal corpo. Emanuele si poggia un dito sulle labbra e mi oltrepassa, gattonando verso la grata.

Voglio vedere anch'io. Devo cambiare le cose. Non voglio più una vita in cui la realtà ha un faccia nascosta. Adesso voglio guardare le cose come stanno. Non mi importa quanto sarà brutto.

Belle intenzioni ma, quando lo faccio, ne pago tutte le conseguenze. Mi schiaccio le mani sulle labbra, non so se per non urlare o per bloccare il fiotto acido che mi brucia la gola.

Mia madre è riversa sulla tastiera. Immobile come un cadavere. Perdo la capacità di controllare il mio corpo. Tremo e mi sento soffocare. Emanuele mi stringe a sé, sento il suo petto contro la mia schiena e forse è l'unica cosa che impedisce alla mia anima di non fuggire.

Anche quando un uomo vestito di nero la solleva come se fosse senza peso. Ha il volto coperto da un passamontagna, come anche quello che lo aiuta a metterla in un sacco della spazzatura.

Mi sento morire. Impotente, persa, di fronte a tutto l'orrore che ha rovinato la mia vita. Intrappolata in un blocco di ghiaccio fatto da tutte le lacrime che non riesco a versare, nemmeno ora.

La mia voce è un sussurro strozzato. «Non capisco, non ha mai fatto male a nessuno. Pensi che sia… morta?»

«Lo scopriremo, Lilia. Aspetta.» Afferra la grata e, dopo un paio di tentativi, riesce a scardinarla. «Scendo prima io.»

«Se ne sono andati?»

«Sì.» Fa uscire prima le gambe, si tiene appeso con le braccia e poi si lascia andare. «Vieni.»

Tiro su con il naso, faccio un paio di respiri e ripeto i suoi gesti. Se non mi sostenesse, però, ruzzolerei a terra. Le mie gambe sembrano fatte di gelatina.

«Ce la fai?»

La stanza è decorata con tonalità neutre e sobrie, con pareti in tonalità beige e pavimento in parquet lucido. Appesi ai muri ci sono alcuni quadri di paesaggi, ma l'illuminazione non è abbastanza calda da creare un'atmosfera accogliente. Ci sono alcune sedie comode per gli ospiti al di là della scrivania, mentre il resto della stanza è vuoto e puramente funzionale.

«Hanno ripulito tutto.» 

Il computer è sparito, così come la tastiera e il monitor. Letali, accurati e veloci. Cosa posso fare io contro persone del genere? E contro esseri in grado di scalare muri come lucertole?

Emanuele guarda sotto il tavolo, apre tutti i cassetti. Sposta i pochi quadri.

«Che cosa cerchi?» Mi stringo le braccia intorno al corpo, ma non serve a calmare la profondità del mio smarrimento.

Si passa le mani fra i capelli e scuote la testa. «Un colpo di fortuna, credo.»

«Penso che quella sia la porta del bagno. Controlliamo anche lì?»

«Non l'avevo notata.»

In effetti, è incassata nella parete, molto poco visibile. La apriamo facendo scorrere l'anta, a scomparsa nella parete. Sembra un bagno normale. piuttosto spazioso, c'è anche la doccia. Sembra tutto immacolato. Ci sono saponette come quelle degli alberghi, nello sportello noto un dentifricio intonso e un deodorante, credo, mai usato. Una serie di asciugamani giacciono ben piegati su una mensola metallica.

«Dove pensi che sia?» Mi chiede. «Vedi qualcosa di strano?»

«Non lo so... Ma immagino che io non debba pensarci troppo, no?»

«Esatto.»

«Gli asciugamani.»Kdiverso.

Emanuele li toglie uno alla volta. Scoprendo un quadro elettrico pitturato con lo stesso colore rosato della parete. 

«Scusa, devo mutare.»

«Non devi dirmelo come se fosse un reato, ogni volta.»

«È che… di nuovo non sarò un granchè da guardare.»

«Non fa niente, tranquillo.» 

O almeno spero. 

Sospira, poi muta in un mostro alto quasi due metri, sembra una specie di mantide con degli uncini sulle protuberanze anteriori. Faccio un passo indietro, sovrastata da quella creatura. Reale e assurda come qualunque altra cosa intorno a me. Ne sono terrorizzata, ma spero che non se ne accorga.

Fa saltare via la copertura facendo leva con un artiglio, poi torna alla sua forma umana.

Deglutisco. «C'è qualcosa?»

«Sì, sei grande.» Estrae una piccola scatola metallica e la mette in tasca.

«Che cos'è?»

«Un hard-disk.»

Faccio per dire qualcosa, poi un pensiero terribile mi attraversa la mente: mio fratello.

«Oddio, dobbiamo trovare Luca. Ammazzeranno anche lui!»

«Sai dov'è?»

«Ieri mia madre mi ha scritto che lo lasciava da mia zia, ma non so.... Forse è a scuola.»

La disperazione rimane bloccata nella mia gola, ma faccio del mio meglio per non restarne vittima. E se fosse già morto?


Editing: Priscilla Gullotta (Instagram @libriacuorleggero)


Dal momento che farò una pausa di una settimana per le vacanze. Questa settimana ho inserito due capitolo invece che uno ❤️

Che aspetti? Continua a leggere!

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