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CAPITOLO 21

Il sottomarino sobbalza leggermente, un sussulto quasi impercettibile, seguito dal rumore dell’acqua che si ritrae dolcemente attorno allo scafo.

Mi stacco da Emanuele con riluttanza, sentendo ancora il calore del suo corpo sulla mia pelle, un’eco del momento rubato tra il sonno e la veglia. Ma non c’è tempo per lasciarsi andare a pensieri superflui.

«Stai bene?» mi domanda.

Annuisco. «Più o meno.»

Ignoro la tensione nei muscoli, e mi alzo. Oltre il vetro, la superficie dell’acqua è limpida, un blu profondo che riflette il cielo terso senza una nuvola a sporcarlo. Un piccolo isolotto roccioso, poco più di uno scoglio, si estende davanti a noi, immerso nel silenzio di un mare che sembra non aver mai conosciuto tempeste. Lancio un’occhiata alle coordinate sullo schermo. Sono ancora un po’ intontita e forse è per questo che i miei pensieri non ostruiscono le informazioni che emergono nella mente. Latitudine e longitudine mi dicono che siamo nei pressi della costa dell’Argentario.

A guardarla dall’oblò, la minuscola isola dove abbiamo attraccato è coperta di macchia mediterranea, un groviglio selvaggio di lentischi, mirti e ginepri che si arrampicano tra le rocce come dita nodose. Qua e là, piccoli ciuffi di erica e cisti dai fiori pallidi interrompono il verde compatto della vegetazione. Alcuni pini marittimi si contorcono in forme scolpite dal vento, le radici aggrappate con disperazione alla terra brulla.

Il portellone si apre con un sibilo. Una folata d’aria tiepida e salmastra si insinua all’interno, portandosi via il senso di oppressione del sottomarino. Per un istante, respiro a fondo, lasciando che il profumo resinoso del rosmarino selvatico e della lavanda marina mi riempia i polmoni.

Potrebbe sembrare un rifugio.

Potrebbe sembrare un angolo di pace lontano da tutto.

Ma non lo è.

La sensazione di tregua è solo un’illusione, una trappola ben costruita dalla bellezza ingannevole di questo posto. Come la vita: un attimo prima ti culla, l’attimo dopo ti tradisce.

«Non fidarti mai della calma dopo una tempesta» mormoro tra me e me.

Dietro di me, Savannah sbuffa. «Ti stai mettendo a fare la poetica, adesso?»

«La dico meglio» Hermes, invece, ridacchia. «Ah, la quiete prima della catastrofe. Come la amo.»

Ignoro entrambi e salto giù, le suole che toccano la pietra umida. Il sole si rifrange sulle onde tranquille, creando piccoli bagliori di luce sull’acqua bassa che lambisce la riva. Per un istante, chiudo gli occhi e ascolto.

Il vento soffia leggero tra le fronde, il mare si infrange contro le scogliere con una dolcezza innaturale.

Troppo perfetto. Troppo quieto.

Sento gli altri scendere uno dopo l’altro. Emanuele atterra accanto a me con la sua solita grazia istintiva. Yaku si sistema la lancia sulla schiena con un gesto automatico, mentre Calipso si trascina fuori dal sottomarino, il volto ancora segnato dalla stanchezza e dalle ferite.

«Allora?» chiede Yaku, squadrando l’isolotto con occhi critici. «Che si fa ora?»

«Esploriamo l’isola» stabilisce Lilia. «Dobbiamo trovare il modo di raggiungere la costa.»

Emanuele si ferma accanto a me, lo sguardo perso sull’orizzonte. Fra noi le cose sono cambiate molte volte da quando era uno studente qualunque del mio liceo. Stavolta, però, c’è qualcosa di diverso. Più profondo. È come se fossimo ad anni luce di distanza l’uno dall’altra.

Eppure, non voglio che resti così. Ho accettato passivamente molte cose in passato, a partire dalla morte di mio padre. Questo non fa più parte di me. Se c’è una cosa che queste settimane mi hanno insegnato è a prendere in mano la mia vita, per quanto incasinata possa essere.

«Vieni con me?» gli domando.

Lui sorride e annuisce. «Temevo che non me l’avresti chiesto.»

 

L’aria è tiepida e satura dell’odore salmastro del mare, mentre ci facciamo strada attraverso l’isola. Il terreno è irregolare, disseminato di rocce appuntite e ciuffi di rosmarino selvatico che si piegano al vento. I pini marittimi contorti proiettano ombre lunghe sulla terra arida, mentre i cespugli di mirto e lentisco formano un groviglio verde che a tratti ci costringe a cambiare percorso.

«Immagino che io ti debba delle spiegazioni.» La voce di Emanuele è tranquilla, ma con una nota di tensione.

Scuoto la testa, evitando uno dei rami bassi. «Non mi devi niente. Mi rendo conto che tu abbia vissuto molte vite. E questo è quanto.»

Lui mi mette una mano sul braccio. «Lilia, lo so che non è facile. Io non sono facile. Ma ti giuro che fra me e Hermes è finita.»

«Non per lui.» Lo guardo di sfuggita, e nei suoi occhi vedo la scintilla di qualcosa che non voglio riconoscere: un’ombra di pensieri che non dice ad alta voce.

Sospira. «Gli passerà. Vuole solo marcare il territorio.»

«Spero che sia solo questo.»

Pensare ai miei problemi personali mi sembra stupido adesso, nella situazione in cui siamo. Eppure, l’idea di allontanarmi da lui mi spaventa. Mi è stato accanto sin dall’inizio e, a modo suo, ha tentato di proteggermi.

«Lilia, io sono qui con te. Niente cambierà le cose.»

Mi passa le braccia intorno al corpo e io appoggio la fronte contro il suo petto. Non riesco a lasciarmi andare del tutto, ma il sollievo che provo va al di là delle parole.

«Grazie.»«Non ringraziarmi. Meriti di essere felice e io farò del mio meglio per fare in modo che accada.»

Le sue parole restano sospese fra di noi, come se il tempo si fosse fermato. C'è qualcosa nei suoi occhi che non avevo notato prima. Una tenerezza fragile, quasi impaurita.

Le sue dita mi sfiorano la guancia, leggere come un battito d’ali. E poi si china, piano, senza fretta, come se mi stesse chiedendo il permesso. Le sue labbra incontrano le mie in un bacio dolce, un po’ triste, come un addio che non vuole essere pronunciato.

Chiudo gli occhi. Non so se sto tremando per l’emozione o per il timore di perderlo. C’è troppo che non diciamo, troppe cose che ci inseguono. Ma in quell’istante, in quel respiro sospeso, mi sento protetta.

Quando ci stacchiamo, i suoi occhi sono lucidi, ma il sorriso che mi rivolge è lo stesso di sempre. Disarmante. Vero.

«Supereremo anche questa, Lilia.»

Annuisco, ma non riesco a esserne sicura. Più la mia mente si fa affilata e più le informazioni che riesco a ricordare mi angosciano. Il mondo mi sembra un ingranaggio che non posso controllare. Niente è come sembra e la mia vita di merda ora è diventata anche assurda. Eppure, Emanuele ha ragione. Dobbiamo muoverci come se fossimo convinti di farcela. Altrimenti siamo già perduti.

Riprendiamo il cammino, seguendo il pendio che scende verso la scogliera. Il mare, di un blu intenso, si apre davanti a noi come un respiro infinito, increspato appena dal vento leggero. Da quassù, l’acqua sembra pura, incontaminata, eppure qualcosa mi inquieta. Troppo silenzio. Troppa perfezione.

«Una grotta?»

Mi sporgo un po’, cercando di vedere meglio. Il passaggio si allarga verso il basso, una gola di pietra che precipita nelle profondità. Un lieve bagliore azzurro-verde filtra dal basso, pulsando con il movimento lento delle onde.

Emanuele si accovaccia accanto a me. «Potremmo scendere.»

Lo guardo, incerta. «E se fosse una pessima idea?»

Lui sorride appena. «Lo è. Ma sembra anche l’unica che abbiamo.»

La discesa è difficile. Le pareti di pietra calcarea sono scivolose, levigate dall’acqua e dall’aria. Emanuele si muove con la naturalezza di chi conosce ogni piega del proprio corpo, mentre io procedo con cautela, aggrappandomi alle sporgenze. Il suono dell’acqua si fa più forte, rimbalzando sulle pareti rocciose.

Quando finalmente tocchiamo terra, la grotta si svela davanti a noi.

È immensa. Una cattedrale di pietra e luce.

L’acqua, di un cristallo liquido, riflette il soffitto della grotta in mille sfumature di blu e verde, ondeggiando come uno specchio vivo. Le stalattiti pendono dall’alto come artigli di pietra, gocciolando lentamente nell’oscurità. Il chiarore filtrato dall’apertura sommersa crea giochi di luce sulle pareti, disegnando ombre in continuo mutamento.

Per un attimo, restiamo in silenzio.

Poi Emanuele indica qualcosa sul lato opposto della caverna.

«Lì.»

Seguo il suo sguardo e mi blocco.

C’è una barca abbandonata. Non una barchetta da pesca, ma un natante da ricerca, con strumenti che non conosco e una radio che pende di lato, la plastica scolorita dall’umidità.

«Che diavolo…» sussurro.

Ci avviciniamo con cautela. L’acqua è talmente trasparente che riesco a vedere le rocce sommersi sotto la chiglia, una macchia scura tra il blu scintillante.

Emanuele appoggia una mano sullo scafo. È intatta. Nessun segno di danni, nessuna indicazione di cosa possa essere successo.

«Dove sono?» chiedo a voce alta, più a me stessa che a lui.

Lui scorre lo sguardo sulla strumentazione lasciata lì, come se i ricercatori dovessero tornare da un momento all’altro. Poi solleva la radio.

«Strano.» La gira tra le mani. «È accesa, ma non capta nessun segnale.»

Ci guardiamo, la tensione che si insinua tra noi come un presagio.

L’aria nella grotta sembra improvvisamente più pesante. Il silenzio più denso.

Sento il cuore martellare nel petto mentre una domanda mi attraversa la mente, gelida come l’acqua attorno a noi.

Se la radio è accesa… perché non c’è nessuno qui?

Il suono dell’acqua che si infrange dolcemente contro lo scafo riempie il silenzio, un contrasto stridente con la tensione che si insinua nella mia mente.

Mi volto verso Emanuele, che ora sta esaminando il ponte della barca, le dita che sfiorano la superficie umida della strumentazione. Il suo volto è indecifrabile, ma c’è qualcosa nella rigidità delle sue spalle che mi dice che anche lui sente la stessa inquietudine.

Faccio un passo più avanti, gli occhi che scorrono sulla fiancata dell’imbarcazione. Poi il mio sguardo si ferma su qualcosa, lì, appena sopra il pelo dell’acqua.

Una macchia rossa sulla roccia.

Il cuore mi batte nel petto mentre mi avvicino.

Mi chino. Tocco con la punta delle dita.

Sangue.

Mi ritraggo di scatto, il respiro che mi si blocca in gola. Non è una grande quantità, ma è lì, incrostato sulla superficie della pietra, gocce scure che il mare non è riuscito a cancellare del tutto.

«Emanuele.» La mia voce è più bassa di quanto vorrei.

Lui mi raggiunge, gli occhi che seguono il mio sguardo. Si accovaccia accanto a me e passa un dito sulla roccia, esaminandola con la precisione di chi è abituato a leggere tracce di ciò che è stato.

«Qualche ora al massimo.» Non c’è sollievo nella sua voce.

Ci guardiamo per un istante.

Qualcosa è successo qui. Qualcosa di brutto.

Mi stringo le braccia attorno al petto, cercando di soffocare la sensazione di freddo che mi avvolge, nonostante l’aria tiepida della grotta. Dove sono finiti i ricercatori? Perché avrebbero lasciato la loro barca qui, con tutto ancora intatto?

«Sono… morti?»

«Probabile, ma non possiamo esserne certi.»

Emanuele si alza e si avvicina nuovamente all’imbarcazione. Sposta alcuni strumenti, controlla il pannello di controllo della radio, poi mi lancia un’occhiata.

«Dovresti dirlo agli altri. Nel frattempo, potrei esaminare il fondale.»

«Potrebbe essere pericoloso.» Mi inumidisco le labbra, tesa.

Lui accenna un sorriso. «Cosa non lo è, a questo punto?»

«Non è una buona ragione per metterti in pericolo.»

Inclina la testa e ammicca. «Posso cavarmela, non mi sottovalutare.»

Ho visto cosa è in grado di fare e forse ha sempre un messo un freno al suo reale potere. Immagino che dovrei avere un po’ più di fiducia in lui.

«La paura non è stata la mia migliore consigliera, fino adesso» ammetto. «Fai quello che devi, tornerò qui con gli altri.»

Annuisce. «Vedrò di farmi trovare pronto.»

«Sarà meglio per te, o ti cercherò fino in capo al mondo.» Gli lancio uno sguardo eloquente.

«Mi piacciono queste minacce. A dopo, mia signora.» Ride, poi si tuffa in acqua.

La sua forma si allarga come un’ombra blu sotto la superficie, poi sparisce alla mia vista.

Torno sui miei passi, arrampicandomi sulle rocce con più fretta di quando siamo scesi. Il cielo azzurro sembra incredibilmente limpido. Troppo, come se volesse mascherare il fatto che qualcosa su quest’isola è terribilmente sbagliato.mente sbagliato.

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