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CAPITOLO 3

Ricordo bene le istruzioni del messaggio che ho trovato nell’armadietto. Per qualche motivo, è come se fossero tatuate nella mia mente.
«In teoria dovrei...  Dovremmo raggiungere il parcheggio. Ma è proprio dall'altra parte rispetto a dove siamo.»
Emanuele solleva lo sguardo. «E non possiamo volare, in teoria.»

Faccio un sorriso che di sicuro mi esce un po' sbilenco. «Nemmeno in pratica. Mi pare ovvio che, se avessi i superpoteri, non avrei problemi.»

«Dici?»

«Certo.»

Lui inclina la testa, divertito. «E che faresti?»

Rispondo senza esitare. «Quello che mi pare senza dare retta a nessuno.»

«E sbagliare non ti preoccuperebbe?»

Sbuffo. «Già, forse coi superpoteri farei solo casini più grandi.»

Emanuele ride e si guarda intorno. «Allora, vediamo. Per raggiungere il parcheggio dovremmo passare davanti all'entrata della scuola e immagino che non sia il caso.»

«Esatto.» Ci rifletto un attimo. «Pensi che io sia ancora in tempo per seguire quelle indicazioni?»

Fa spallucce, come se la cosa fosse del tutto irrilevante. «Chi può saperlo? Ma l’alternativa è consegnarti ai bidelli. Come la vedi?»

«La scarto.»

«Immaginavo.»

Si allontana di qualche passo e osserva il magazzino degli attrezzi. È  attaccato al muro della scuola e, più in alto, c'è una scala metallica che serve per raggiungere il tetto.

«Ti spingo sul magazzino, da lì puoi raggiungere il tetto e calarti dall'altra parte.»

Spalanco gli occhi. «Ma non sono mica zero zero sette

«Anche lui avrà iniziato da qualche parte.» Incrocia le mani e le abbassa di fronte a sé. «Metti un piede qui e io ti dò la spinta.»

«Non ci posso credere che lo sto facendo davvero.»

«Ricordi? Nessun'altra scelta.»

«Sì...»

Prendo un bel respiro, metto il piede sulle sue mani e gli appoggio le mie sulle spalle.

«Uno... Due...»

Al tre, lui mi solleva e sento lo stomaco scendere sotto i piedi. Lo spigolo del tetto si conficca nelle mie anche e sbraccio per tirarmi su. È sporco e scivoloso,  se non cado è solo perché lui mi spinge dai piedi. 

Osservo sconsolata le mie braccia luride. «Che schifo.»

«Tutto bene?» mi chiede, da sotto.

«Sì, ma adesso tu come sali?»

Emanuele sposta una tanica di plastica, in modo che possa usarla come gradino. Indietreggia per una breve rincorsa, salta e si issa sulle braccia senza fatica. 

Va bene che è almeno venti centimetri più alto di me, ma sembra che non abbia mai fatto altro nella vita. 

«Sono impressionata...»

Batte le mani l'una contro l'altra. «Parkour. Dopo un paio di costole incrinate, impari.»

«Per fortuna che me le sono risparmiate.»

La pioggia ha smesso di cadere, ma il cielo è rimasto grigio e minaccioso. L'aria è fresca e umida e ho quasi l'impressione che la città si sia svuotata. A dire la verità, oggi mi appare tutto strano. Come se ciò che ho sempre osservato di sfuggita, avesse assunto una forma diversa, più reale. 

Emanuele solleva lo sguardo verso il tetto. «Stavolta vado prima io.»

Fa un balzo e afferra la barra di metallo delle scale antincendio. Oscilla un paio di volte e si tira su con un movimento da far invidia a un ginnasta. Infine, abbassa la rampa così che io possa salire. 

«Ora non sono impressionata, sono impaurita. Sei sicuro di essere uno studente del quinto anno?»

«Se vuoi ti recito un frammento di Alceo o Epicuro. Oppure Catullo, per un tocco romantico.»

Salgo le scale e rido. «Allora sono certa che non lo sei. Nessuno sa queste cose in questa scuola di capre.»

Inclina la testa e mi sfida. «Odi et amo, quare id facias...»

«Fortasse requiris» rispondo. 

Lui mi viene dietro. «Nescio, sed fieri sentio...»

«Et excrucior» finisco, stupita del fatto di ricordarla così bene. 

Mi rivolge un sorrisetto divertito. «Anche tu non sei male, Oronza.»

«Che cretino!» Lo colpisco per scherzo alla spalla e non riesco a trattenere un'altra risata. «Andiamo, che è meglio.»

Raggiungiamo il tetto della scuola e proseguiamo fino alla parte opposta. Il parcheggio è a una decina di metri sotto di noi. Per fortuna c'è un'altra scala e poi non ci resta che saltare giù. 

Emanuele batte le mani l’una contro l’altra per ripulirle dalla polvere. «Visto? Facilissimo.»

«A me ancora non sembra vero di averlo fatto.»

Mi trascina dietro un'auto e si accuccia. «Quali erano le altre indicazioni?»

Ora mi sembra di essere davvero in un film.

«Vedo che stai prendendo sul serio questa storia» gli faccio notare.

«Prendo sempre le storie sul serio.»

«Tutte?»  Oddio, ma che domanda idiota ho fatto. Voglio sotterrarmi.

«Anche troppo» mi risponde, guardando verso il parcheggio.

Se avessi un catino di acqua gelata ci infilerei tutta la testa. Ma come sempre in questi casi, fingo disinvoltura.

«Il ragazzo perfetto.»

«Aspetta a dirlo. Che si fa adesso?»

«La ringhiera.» Indico le barre di metallo verticali che delimitano il parcheggio. «La terz'ultima barra dovrebbe sfilarsi, in teoria.»

Annuisce. «Andiamo a vedere.»

Ci avviciniamo all'angolo ed Emanuele afferra la lastra di metallo con entrambe le mani.

Fa un paio di tentativi, poi scuote la testa. «Niente da fare, non viene via.»

«La distanza tra una e l'altra è troppo poca per passarci in mezzo... Aspetta, provo a contare dall'altro lato.»

La mia idea è giusta e, stavolta, la barra si solleva senza incontrare resistenza. Una botta di vita per la mia autostima morente. Emanuele la sposta di lato e, dopo che siamo entrambi fuori sul marciapiede, la rimette dov'era.

«Senti, ma non è che sei un agente segreto e poi mi ucciderai o rapirai o mi violent...» Mi fermo prima di peggiorare la situazione. 

Lui si sistema il giacchetto leggero, cercando di togliere le macchie di polvere che la scalata gli ha fatto guadagnare. 

«Se fossi un agente segreto, immagino che non farei niente di tutto questo. In caso fossi un pericoloso attentatore... Probabilmente l'avrei già fatto.»

«Ha senso, ma...  È strano che tu sia qui ad aiutarmi in questa follia» gli confesso.

Mi inchioda con i suoi occhi chiari e accenna un sorriso. «Lo hai detto tu: ti sto aiutando.»

Il mio cuore raddoppia i battiti. «Non so perchè, ma non credo più alla storia del ragazzo annoiato.»

«A quale altra storia credi, allora?» Solleva le sopracciglia e mi rivolge uno di quegli sguardi che tanto fanno impazzire le mie amiche.

Ma non a me, figuriamoci se mi faccio abbindolare dal fascino del bel tenebroso. Magari solo un po', ma questo non significa che ho intenzione di morirgli dietro.

«Non lo so... Sono certa che tu sia uno studente. Quando sono arrivata al ginnasio eri già qui, quindi...»

«Mi lusinga il fatto che tu mi abbia notato.»

Mi schiarisco la voce e inizio a camminare. «Io? No, più che altro Elisa.»

Lui mi viene dietro. «Elisa? La tua amica con i capelli rosa?»

«Vedo che anche tu l'hai notata.»

Lo ammetto. Un po' mi disturba il fatto che sappia chi è lei, ma non avesse idea del mio nome. Sospiro e faccio un cenno verso la strada principale. Come sempre, la Cristoforo Colombo è piena di macchine che sfrecciano sulla scia dell'onda verde dei semafori. 

«A destra dovrebbe esserci un albergo» mi fa notare.

«Dopo il cartello delle agenzie funebri?» Indico l'immagine con i tre tizi vestiti di nero e le braccia incrociate sotto un numero di telefono. «Spero che non dovremo chiamare quel numero a breve.»

«Da morti sarebbe complicato.» Inarca un angolo della bocca, apparirebbe divertito, se i suoi occhi non dicessero il contrario. 

Ogni minuto che trascorro con lui, l’immagine che ho di Emanuele cambia. Mi appare sempre diverso, anche se non così tanto da sembrare un'altra persona. Somiglia più a una variazione continua di tonalità, come se la sua personalità assumesse nuove sfumature una dopo l’altra. 

«In effetti. Comunque, tu non me la racconti giusta» gli dico, dando voce ai miei pensieri.

Solleva il mento e sfida le mie parole. «Sai che pensavo lo stesso di te? Chi riceverebbe strane lettere in codice di quel genere? E se fossi tu a volermi rapire?»

Gli lancio uno sguardo di traverso. «Non ci provare.»

Svoltiamo l'angolo e una gigantesca insegna verticale mostra la scritta: Hotel Caravel.

«Dovrebbe essere quello» gli dico.

Solleva lo sguardo verso l'edificio bianco e abbastanza anonimo, se non ostentasse un tocco di design con quelle finestre strette e lunghe. Rabbrividisco, la sua forma squadrata contro il cielo pallido me lo fa apparire vuoto e spettrale.

«Non ne vedo altri.»

«Il biglietto diceva che avrei saputo il numero della stanza... ma io non ne ho idea.»

«Qual è il primo che ti viene in mente?»

Avrei risposto che non lo sapevo, ma un numero appare davvero nella mia testa.

«Trecentonove.»

«Altro?»

Ci penso un attimo. «No, solo trecentonove. Ma perché mi succede questa cosa? Come con l'armadietto.»

Mi sta per prendere un attacco di ipocondria. E se avessi una malattia al cervello? Mi devo fermare per prendere aria e mi premo una mano sul petto. 

«Ehi, va tutto bene?»

Mi passa un braccio sulle spalle, ma io lo sento appena. Tremo come una foglia e sono certa che sto per svenire.

«Ho paura... Tanta.»

«Sei viva, d'accordo? Non è successo niente di terribile.»

«E se sto morendo?»

Accenna un sorriso. «Questo non ti renderebbe diversa da qualunque altra persona sul pianeta.»

Faccio un paio di respiri. «Non sei un granché a consolare.»

«Qualche difetto dovrò pure averlo.»

Abbasso lo sguardo, fissandomi su una foglia giallastra affogata in una pozzanghera. «Non so perché mi vengono in mente codici e numeri. Qualcosa non va nella mia testa.»

«Prova a darmi la prima risposta che ti viene in mente, perché trecentonove?» mi domanda.

«Il numero da chiamare sul manifesto delle onoranze funebri, ripetuto tre volte.» Spalanco gli occhi, mentre le altre risposte si affollano nella mia mente. «Oh mio dio. L’armadietto in cui ho trovato le istruzioni era l'ottocentrotrè e aveva lo stesso numero del murales davanti scuola e… il codice per sbloccarlo me l’ha sussurrato una ragazza stamattina alla fermata. Sempre lei mi ha chiesto se lì passava l'autobus ottocentotrè. Non può essere un caso, lei sapeva tutto!»

«Visto? Qualcuno diceva: chiedi e ti sarà dato. Non otterrai risposte, senza chiederle prima a te stessa» afferma, come se fosse la cosa più normale del mondo.

Mi premo i palmi sulle tempie. «Ma tutto questo non ha senso. Chi era quella tizia?»

Ansimo nel tentativo di rallentare il battito del cuore. So che sto per avere un altro attacco di panico. Uno di quelli che mi toglierà ogni possibilità di dimostrarmi all’altezza della situazione.

«Vorrei fuggire» gli confesso, di getto. «Fuggire da tutto.»

«Vieni qui.»

Mi abbraccia e sprofondo nel suo petto. Nel suo calore e nel suo profumo. Gli passo le braccia dietro i fianchi. Le auto che sfrecciano sull’asfalto bagnato sono niente rispetto ai miei pensieri impazziti.

«Ma tu chi sei?» esalo, in preda ai tremiti e alla mancanza d’aria.

«Nessuno potrebbe rivolgermi una domanda più difficile di questa» sussurra. «Ma sappi che io non ti abbandonerò.»

Quante volte avrei voluto sentire queste parole, quante volte. Da quando mio padre non c'è più, vivo con la paura di essere abbandonata. Sono braccata da un mostro che porta il nome di solitudine. Un vuoto che percorro come un'equilibrista sospesa su un fragile filo.

Di nuovo lui mi si mostra in una nuova luce. Una che non voglio lasciare andare, per quanto sia impossibile. Lo conosco da meno di un'ora, ma mi sembra che lui sia con me da molto più tempo. Che sappia tutto, che possa vedere tutto. Mi sento così vulnerabile. Forse, queste emozioni mi stanno illudendo di qualcosa che non esiste, ma mi ci aggrappo con tutta la forza che ho. 

«Me lo prometti?» gli chiedo, senza riuscire a sollevare lo sguardo.

«Te l'ho già promesso. Lo farò tutte le volte che ne avrai bisogno.»

Stavolta guardarlo negli occhi è una necessità a cui non posso sottrarmi. «Perché?»

«Scopriamolo insieme, Lilia.»

Tiro su con il naso e mi asciugo gli occhi con i palmi delle mani. Tutta la mia strafottenza, la sicurezza che ostento, è solo un tentativo di impedire che quel che resta della mia vita vada in pezzi. La verità è che mi sento sola, in un modo così profondo che non riesco a spiegarlo nemmeno a me stessa.



Editato da: Priscilla Gullotta

Instagram: @libriacuorleggero



La traduzione del Carme 85 di Catullo citato da Lilia ed Emanuele è questa:

Odio ed amo. Perché lo faccia, mi chiedi forse.

Non lo so, ma sento che succede e mi struggo.

Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto ❤️

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