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CAPITOLO 5

Emanuele non può che accorgersi della mia reticenza.
Solleva le mani e fa un passo indietro. «Se non vuoi parlarmene, va bene, Lilia. Dimmi se vuoi che io faccia qualcosa o se preferisci che me ne vada.» 
Nel mondo di illusioni in cui mi sembra di essere precipitata, tutto quello che posso fare è essere sincera. Non c’è altra arma che la verità di fronte alle ombre che mi assediano.

«Non voglio che tu vada via... Il fatto è che non so se posso fidarmi di te.»

Sta per dire qualcosa, poi si volta di scatto verso la porta. Il suono di sblocco della serratura mi fa gelare il sangue. Emanuele, invece, reagisce all’istante. Mi trascina in bagno e mi schiaccia contro il muro, in modo che il mio corpo sia coperto dal suo. Si porta l'indice sulle labbra e poi appoggia le mani sulla parete. Stringo ancora la lettera fra le mani, ma riesco a pensare solo al mio viso premuto contro il suo petto. Quel contatto è l'unica cosa che mi permette di non dare di matto, quando la sua immagine si fa traslucida, semitrasparente.

Mi mordo le labbra per evitare di gridare, quando tre o quattro persone, armate fino ai denti, entrano nella stanza. Li intravedo dalla porta del bagno, sono vestiti come i militari delle missioni speciali e impugnano un mitra o qualcosa del genere. I caschi con la visiera mi impediscono di vedere i loro volti e questo non fa che peggiorare la mia già precaria condizione emotiva.

Non dicono una parola, sono rapidi ed efficienti. Non so cosa facciano nella stanza, ma di certo hanno visto la cassaforte aperta. Quando entrano nel bagno, sto per morire di infarto. Resto immobile, quasi non respiro, finché non si scambiano un segnale ed escono con la stessa velocità con cui sono entrati. 

Che cosa è successo? Sono davvero sveglia? Ho un milione di domande da fargli, da qualche parte devo iniziare.

«Ma chi erano?» sussurro, quando lui torna visibile.

«Non lo so. Forse, agenti della Truesight.»

«True che?»

Emanuele impreca a mezza bocca. «Non sono riusciti a prelevare il tuo DNA stamattina, giusto?»

Tremo come una foglia. «Il DNA? Stai parlando dei controlli medici che stavano facendo in classe?»

Accenna una risata e mi parla come se fossi una bambina. «Pensi che quelli fossero davvero medici della ASL?»

«E tu che ne sai?! Sono venuti anche da voi del quinto, no?»

Perché l'ho detto? L’ho appena visto sparire e ormai mi sembra chiaro che sia anni luce lontano da uno studente. Il fatto è che ancora devo rendermene davvero conto.

«Hanno prelevato campioni da tutti, ma io ho fatto in modo di evitarli. Se tu avessi seguito subito le istruzioni sarebbe stato tutto più facile.»

Sgrano gli occhi. «Hai messo tu quel messaggio nell'armadietto?»

«Sì, ma tu hai la testa dura, Oronza.» Emanuele esce dal bagno e torna nella stanza. 

Gli vado dietro con l'intenzione di strangolarlo. «Oronza, qui, non fa tutto quello che trova scritto su un biglietto anonimo farneticante!»

Chiude la cassaforte e rimette a posto la litografia. «L'ho notato.»

«E il preside, anche lui è coinvolto? E quello che hai fatto prima? Sei sparito, per la miseria!»

«Indovina.»

Quando mi trovo il dirigente scolastico davanti, indietreggio, inciampo su una sedia e per poco non vado a finire a terra. Identico, reale in tutto e per tutto.

«Ma che cazzo!» esclamo, sconvolta.

Lui, invece, sembra che parli del tempo. «Mutaforma è il nome corretto. O meglio, il più diffuso. Qui mi chiamano Polymorphus qualcosa.» 

Torna a essere Emanuele. Io invece, non riesco a riprendermi.

«Avrei voluto evitarti lo shock, ma le circostanze hanno giocato a mio sfavore.»

Mi siedo sul bordo del letto e mi appoggio i palmi delle mani sulla fronte. Non ci posso credere. Deve essere una specie di sogno molto realistico. Anzi, un incubo. 

La lettera di mio padre cade a terra, ma la afferro prima che lui possa chinarsi a raccoglierla. Se prima avevo dei dubbi, ora sono certa che non posso fidarmi. Potrebbe essere stato chiunque nella mia vita. Elisa, mia madre, le mie insegnanti. Chiunque.

«Non ti avvicinare!» gli intimo, scivolando indietro fra le lenzuola ormai disfatte.

Mi sento presa in giro, come se io fossi una pallina da direzionare verso la buca giusta. Se non fossero entrati quei militari forse non me lo avrebbe mai detto.

Si siede sulla sedia e appoggia il gomito sul tavolo, premendosi le dita sugli occhi. Resta così qualche istante e, per la prima volta, mi sembra di vedere in lui un segno di cedimento.

«Lo so, mi dispiace. Non so che altro dire.»

Il silenzio che cade fra noi è pesante come un macigno. Pensavo mi piacesse. D'accordo lo ammetto: l'avevo trovato carino. Ma il suo aspetto è un'illusione, non è niente. 

«Come funziona questa cosa che… che sai fare?»

Fa saltare via la mano dalla fronte e si lascia andare sullo schienale. «Non la so fare, questo è quello che sono.»

«Sei... umano?»

Pianta gli occhi nei miei. Sono come schegge di ghiaccio, lucidi, penetranti.

«Dimmelo tu, ti sembro un essere umano?»

Che cavolo di risposta. Dio, quanto vorrei andarmene e sbattere la porta. Ma l'immagine di quei mitra è troppo fresca nella mia mente per fare una cosa del genere.

«Almeno puoi dirmi il tuo vero nome?»

«Che intendi per vero?»

«Quello che ti hanno dato alla nascita, tipo. Ce li avrai dei genitori.»

«Non proprio.»

«Sei una specie di... alieno?»

«Cercare di assegnarmi delle etichette ti farà solo perdere tempo.»

«Che c'entri con me?»

«Questo non posso dirtelo.»

Mi alzo di scatto. «Perché no!? Ti rendi conto che non posso fidarmi se non lo so?»

Scuote la testa e si passa le mani sul volto. «Non credevo che le cose si mettessero così.»

Non ho intenzione di lasciar cadere il discorso, faccio un passo verso di lui con le spalle tese e il fuoco che mi brucia negli occhi. «E come sarebbero dovute andare, secondo te?»

Stavolta è lui a innervosirsi, il suo tono è netto e tagliente. «Tu che segui le istruzioni, sblocchi questa maledetta cassaforte e trovi qualunque cosa ci sia dentro. Senza trovarmi a dover rispondere a questo interrogatorio.»

Allargo le braccia, esasperata. «Oh, scusa se voglio sapere chi diavolo ho di fronte!»

«Che dice la lettera?»

Ha la faccia tosta di cambiare discorso e questo mi fa ribollire il sangue.

«E ti aspetti che io te lo dica?» sibilo, velenosa.

Le sue labbra diventano una linea dura che mi fa presagire burrasca. 

«Fa come ti pare» ribatte, senza mezzi termini.

Si alza e va verso la porta. Mica se ne vorrà andare davvero? Invece sì: la apre e lascia la stanza. Guardo di nuovo le indicazioni che mi ha lasciato mio padre. Quelle sono coordinate, ne sono certa, ma non ho più un cellulare dove poter guardare a cosa corrispondono.

«Merda...»

Vado nel bagno e metto il foglio sotto il getto dell’acqua, in modo che diventi una specie di poltiglia che butto nel water. Tiro lo scarico ed esco di corsa, ma il corridoio è vuoto.

«Che stronzo!» sibilo, prima di lanciarmi verso le scale.

Le scendo due alla volta, saltando gli ultimi quattro gradini tutti insieme. Per poco non vado a finire contro il carrello pieno di asciugamani della donna delle pulizie. 

«Scusi, scusi, scusi.»

Schizzo via verso l'uscita dell'hotel, ma mi trovo davanti solo macchine che sfrecciano e un paio di tipi che fumano.

«Ma dov'è finito?» sussurro, fra un respiro e l'altro.

Inutile chiederselo, potrebbe essere chiunque. O magari è invisibile... Che poi che c'entra l'invisibilità con il cambiamento di forma? Ho la mente fusa, schiudo le labbra e mi sforzo di prendere fiato.

Va bene, magari potevo essere un po' meno diretta. Però, che cavolo, sfido chiunque a mantenere il sangue freddo nella mia situazione. Non so che fare, adesso.

Anzi, sì.

Se non mi fido di lui, dovrò fidarmi di mio padre. Che altra scelta ho? 


***


La osservo. Sola, in piedi al margine del marciapiede. Così giovane, ma così forte da essere riuscita a sopportare cose che avrebbero fatto impazzire chiunque. Vorrei essere al suo fianco adesso, ma non potrei arginare le domande che mi farebbe.

Non mi sento di biasimarla. Ha tutto il diritto di sapere, ma questo non farebbe che complicare le cose. Qualcun altro ha tracciato il suo destino e io avrei dovuto solo obbedire agli ordini. Ma ho vissuto troppe vite per permettere a una gabbia di rinchiudermi, o di rinchiudere chiunque altro. 

Certo, non mi aspetto che creda alla mia buona fede. Nemmeno io lo farei, al suo posto. Questo, però, non cambierà le cose. La osservo da due anni in quella stupida scuola, conosco ogni suo gesto, ogni sua espressione. So quando è una brutta giornata e quando non lo è. E ora mi attira come se fossi una falena condannata a bruciarsi nel fuoco. So che significa, ormai riesco a riconoscerlo molto prima che accada. Stavolta, però, vorrei che ci fosse un modo per impedirlo. Per impedire che le emozioni mi impediscano di fare la scelta giusta, se sarà necessario. La mia natura è una condanna, ma questo riguarda me e un significato che non riesco a trovare.

Lilia sta chiedendo qualcosa a uno degli uomini che fumano fuori dall'hotel. Uno di loro le porge un cellulare. Non so a cosa le serva, spero che non chiami nessuno. Qualunque cosa dovrà fare, è meglio che non coinvolga altri. 

Lo tiene in mano e osserva lo schermo. Forse cerca qualcosa in rete. Il suo volto si incupisce e sulla sua fronte si formano lievi increspature. Restituisce il telefono e si guarda intorno. Immagino che cerchi me. Devo resistere alla volontà di mostrarmi. Non prima che io capisca cosa deve fare. 

La seguo fino alla fermata dell'autobus. Salgo con lei, per fortuna non c'è molta gente. Le sono così vicino che potrei sentire il profumo dei suoi capelli, se in questa forma ne fossi capace.

«Sei uno stronzo» sussurra, guardandosi le scarpe.

Sorriderei, se avessi le labbra. So che non può vedermi, eppure sa che sono con lei, in qualche modo. Scende davanti alla metro e si mette una mano in tasca. Forse in cerca dei soldi per comprare il biglietto. Non credo ne abbia. Infatti, aspetta che la persona nel gabbiotto guardi altrove e oltrepassa il controllo senza farsi notare. Posso percepire la sua tensione nel tremore delle mani, nei passi veloci, nel modo in cui cammina rasente al muro, come se potesse proteggerla.

La metro passa quasi subito e varco le porte al suo fianco. Silenzioso, impercettibile, se non al tatto. Osservo le persone intorno a lei. Ognuno perso nel proprio mondo, le mani strette sulle borse. Non sanno che vengono derubati ogni giorno da pochi in grado di governare scelte, orientare consensi e nascondere la vera forma delle cose. O forse lo sanno, ma sono talmente intrisi da una sensazione di impotenza da restarne schiacciati. Li capisco, anch'io vorrei che le cose fossero diverse, ma mi sembra che ogni tentativo di cambiarle non faccia che peggiorarle.

Non noto niente di strano, ma l'intrusione in hotel non mi lascia tranquillo. Non so come possano averla individuata. O meglio, posso immaginarlo, ma questo significherebbe che abbiamo un enorme problema.

 «E se ti chiedo scusa?» la sento mormorare.

Come posso resistere? Le sfioro i capelli e lei si volta nella mia direzione. Sembra quasi che riesca a vedermi. Si passa una mano sulla fronte e scuote la testa.

«Che scema.»

Scende poche fermate dopo, alla stazione Termini. Il principale snodo ferroviario della città. Cosa dovrebbe fare qui?

Potrebbe salire su un treno o prendere una delle numerose linee di autobus o metropolitana. Invece no, sembra girare a vuoto per una mezz'ora buona. È stanca, forse ha anche fame. L'ora di pranzo è passata da un pezzo, ormai.

Si infila tra la folla che scorre fiumi. Sale sulle scale mobili fino a raggiungere la galleria superiore. Osserva il tabellone degli arrivi e delle partenze. Poi si ferma davanti a un cartello che mostra la pianta della stazione, con le indicazioni per i viaggiatori.

All'improvviso, spalanca gli occhi e corre via. Mi coglie di sorpresa, per un attimo tempo di averla persa. Per fortuna, la ritrovo poco dopo e la seguo fino agli uffici amministrativi della stazione. Non ho idea di cosa ci faccia qui e sono consapevole che il mio compito con lei è finito nel momento stesso in cui ha aperto quella cassaforte. Ma sapevo che non sarebbe stato così, non poteva esserlo.

La vedo dirigersi verso la sala di controllo. Quella è una zona sorvegliata a vista. Cosa pensa di fare?


Editing: Priscilla Gullotta (Instagram @libriacuorleggero)


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