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CAPITOLO 6

Le coordinate della lettera di mio padre si riferivano alla Stazione Termini, mi è bastata una semplice ricerca su internet per scoprirlo. Il resto mi è parso più complicato, ma mi sono fidata del mio istinto e ho pensato che avrei capito cosa fare una volta arrivata a destinazione. E così è stato.
«Uno, B, ottantadue.» Leggo sul cartello con la pianta della stazione.

È la sala di controllo centrale. Mi premo una mano sulla bocca dello stomaco, ormai brontola da due ore. Gli prometto che, se sopravvivo, lo riempirò fino a scoppiare. Non mi concedo la possibilità di tornare sui miei passi. Certo, so che sto facendo qualcosa di folle, ma c’è qualcosa che mi spinge. Non so dargli un nome, eppure sento che devo andare avanti.

Una ronda di guardie giurate appare in fondo al corridoio. Mi tuffo dietro l'angolo e trattengo il respiro. Passano oltre senza notarmi e mi sporgo per vedere se ci sono altre sorprese. Mancano solo dieci metri, ce la posso fare. Mi sono convinta che dopo aver fatto quello che mio padre mi ha chiesto, le cose torneranno a posto. Devo solo fare in fretta.

Corro fino alla porta metallica e mi sollevo sulle punte per guardare all'interno della stanza. Dallo spioncino si intravedono le luci a led dal bagliore freddo e uniforme. Le pareti sono rivestite di schermi tattili su cui sfrecciano informazioni dettagliate sullo stato della linea ferroviaria e dei treni. Non ci sono operatori, tutto sembra automatizzato.

Ricordo i codici sulla lettera, ma non vedo alcun tastierino.

«Cazzo...»

Oh, ecco, uno sportellino che si alza. Sotto c'è un piccolo monitor tattile. Se legge le impronte sono fottuta. Lo sfioro con un dito e si delinea una grata luminosa. Ci sono dei numeri nei punti in cui le linee si intersecano.

«Non pensare, non pensare....»

Muovo il dito in modo da formare una serie di linee che uniscono alcuni nodi.

Non so se, quando la porta si sblocca, sono più esaltata o più terrorizzata.

Mi lancio dentro e chiudo la porta alle mie spalle.

Uno, due, tre respiri. Cuore, ti prego, rallenta.

La parte centrale della sala di controllo è dominata da un grande schermo interattivo circolare, con pulsanti e comandi gestiti da un sofisticato sistema di intelligenza artificiale. Regola la gestione del traffico, coadiuvata da una rete di sensori che monitorano ogni vagone e ogni persona che si trova nella stazione. Come io abbia dedotto tutte queste informazioni, è un mistero.

«Vediamo...»

Ogni console ha un numero sopra. Corro da una all'altra e mi fermo davanti alla CMD3450987. Lo stesso codice sulla lettera di mio padre, bene.

«Eccoti, bambina.»

Non riconosce il mio volto e non si sblocca. 

«Che palle...»

Il tasto modalità manutenzione attira il mio sguardo. Anche perché è l'unico che posso selezionare. Ci provo, male che va parte l'allarme, scoppia tutto e io finisco in galera.

O morta.

«Inserire identificativo tecnico» mormoro, leggendo le istruzioni che appaiono.

Xant1er0984, deve essere questo, me lo ricordo bene.

Lo faccio con mano tremante, sperando che funzioni e mi liberi da questa situazione. 

«Okay, modalità backup attivata... E ora che cavolo faccio. Mi servirebbe...»

Leggo la parola "help" la premo e una lunga documentazione tecnica scorre sullo schermo.

«Oddio, ma che significa questa roba... Focus, Lilia. Focus.»

La mia mano saetta sui comandi che mi sembrano quelli giusti e mi trovo davanti una centinaia di nomi, cognomi, date di nascita e codici associati. Ci sono persino le foto.

«Ma che diavolo fanno? Perché schedano la gente?»

Forse queste persone nella lista sono terroristi, pregiudicati. Ma quando vedo il nome e l’immagine di mio fratello, non ne sono più tanto sicura. Anzi, mi prende un colpo. Io non ci sono. Ne sono certa, anche se non so dire perchè visto che quei files mi sono passate davanti agli occhi in un attimo.

L'istinto, giusto? Non ho tempo di rifletterci oltre.

«Cancel, cancel...» Ecco il comando, mi ci vuole solo un attimo per eseguirlo. «E ora riavvio, 'fanculo.»

Mi tocco la fronte umida, sto per svenire.

«Si allontani dallo schermo!»

Sussulto e urlo, sollevando d'istinto le mani. La guardia giurata mi tiene la pistola puntata contro. Una pistola vera.

«Oddio...» Ho le braccia di pietra, anzi tutto il corpo. «Io non...»

Che preghiere si recitano prima di morire? Me ne viene in mente un discreto numero, ma la lingua mi si è incollata al palato.

«Che succede qui?» Un uomo brizzolato e un bel po' sovrappeso appare alle spalle della guardia. 

L'ho già visto da qualche parte, ma non ricordo dove.

«Direttore, ho trovato questa ragazzina con le mani sul pannello di controllo» si affretta a spiegare la guardia.

Ecco chi è il ciccione: il tizio nella foto dello staff della stazione. Il direttore generale, per l'esattezza. Tutte io le fortune.

«I giovani d'oggi, marmaglia senza cervello.»  L’uomo si avventa su di me e mi afferra una spalla.

Mi sfugge un gemito e mi piego su un fianco, nel tentativo di limitare i danni, ma non mi sogno nemmeno di reagire.

«Cosa volevi fare, eh? Postare la tua impresa su TikTok? Ora lo racconterai ai Carabinieri.»

La guardia giurata abbassa l'arma, mentre l'altro mi trascina fuori come un sacco di patate. Non so quanti capelli mi sta strappando, ma di certo è l'ultimo dei miei problemi. Mi spinge davanti a sé, mentre io snocciolo una serie di patetiche scuse a cui non crederebbe nemmeno l'ultimo dei cretini. Sono disperata, ma non riesco a liberarmi da quella stretta. L'uomo mi obbliga a scendere le scale e mi porta verso l'atrio.

«Mi lasci, non ho fatto niente!»

Lui, però, strattona con ancora più forza. No, non voglio andare in galera. Gli martello il petto di pugni ma, d'un tratto, lui mi stringe a sé.

«Calmati, sono io.»

La sua voce è il suono più bello che potessi sentire.

«Ema, non ci credo.» Lo stringo così forte da farmi male alle braccia.

Mi accarezza la nuca e appoggia la guancia alla mia tempia. «È una fortuna che io non debba respirare per vivere.»

Sollevo lo sguardo sul suo volto. «Cosa?»

Lui, però, sta già guardando verso l'uscita. «Andiamocene di qui.»

Non me lo faccio ripetere due volte e corriamo verso via Giolitti. Emanuele ferma un taxi e gli dà un indirizzo che corrisponde a un quartiere fuori città, verso Ostia. Mi siedo sul sedile e tutta la tensione e la stanchezza mi si riversano addosso. Tremo come un ramo in preda di una bufera e mi aggrappo a lui, come se fosse l'unica cosa che può impedirmi di spezzarmi.

Mi passa un braccio intorno alle spalle e appoggio il volto sulla sua spalla. 

«È finita. Sei al sicuro, adesso» mi sussurra.

Vorrei che fosse vero. Ma anche se ci credo fino in fondo, mi lascio cullare e mi abbandono al calore del suo corpo. Mi addormento quasi senza accorgermene.

«Siamo arrivati» mi dice, dopo un tempo indefinibile. 

Sono sfasata al punto di accorgermi a malapena di ciò che mi circonda.

Allunga una mano e mi apre lo sportello. «Scendi, per favore.»

Annuisco e faccio come mi dice. La strada di periferia si infila tra pini marittimi alti e imponenti. Gli aghi secchi, sparsi sull'asfalto irregolare, diffondono un profumo dolce, legnoso. La vista è quasi del tutto occupata dalle fronde degli alberi, spezzate solo dallo sfondo delle abitazioni anonime allineate lungo la via.

Rabbrividisco. Il tepore del primo pomeriggio comincia a cedere il passo alla fresca penombra del tramonto, in un'atmosfera malinconica e silenziosa.  Sussulto quando il taxi riparte, sgommando a tutta velocità. Se oggi non mi scoppia il cuore, è un miracolo.

Mi premo una mano sul petto e mi schiarisco la voce. «Ma che gli è preso?» 

«Stasera avrà qualcosa da raccontare. Vieni.»

Mi appoggia una mano sul fianco e mi conduce verso un piccolo cancello marrone. Un profumo di agrumi e fiori di limone ci accoglie, così dolce da farmi sospirare. Vorrei dimenticare tutto quello che è successo in questa giornata infernale.

Percorriamo un viale stretto che termina su una scala di marmo bianco adiacente al muro della casa. La saliamo fino a raggiungere il un pianerottolo con una porta di legno corroso. Quando si apre, però, mi accorgo che è solo apparenza, perché è spessa e pesante come se fosse tutta di metallo.

L'appartamento che si schiude di fronte  a me è un guscio bianco in cui ogni cosa sembra studiata e ordinata in modo maniacale. Mobili lineari e moderni sono collocati ai margini delle pareti. Non c'è un solo elemento fuori posto, tutti gli oggetti sembrano lì per soddisfare esigenze precise, prive di qualsiasi forma di sentimentalismo. L'aria è fresca, pulita, come quella di montagna.

Non posso evitare di notare le dotazioni tecnologiche. Schermi incassati nel muro come se fossero quadri, un tavolo su cui si delineano forme geometriche leggere ed eleganti.  

Emanuele si avvicina a un pannello posizionato all'ingresso e regola  l'illuminazione, oltre a tutta un'altra serie di parametri che non capisco. Una lieve musica, più simile a una serie di suoni armonici, si diffonde nell'ambiente.

«Non c'è un letto, ma il divano si apre. Intanto siediti, vado a cercarti qualcosa da mangiare. C'è una pizzeria a due isolati.» 

«Non c'è bisogno, qualunque cosa hai va bene.»

La verità è che non voglio rimanere sola nemmeno per un attimo e lui deve intuirlo.

«Qui non c'è niente da mangiare. Ma stai tranquilla, ci metterò un attimo. C'è anche un bagno, se vuoi puoi fare una doccia.»

Sospiro e annuisco. C'è qualcosa in questo posto, qualcosa che mi provoca una sensazione di straniamento. Quasi come una casa umana, eppure molto lontana dall'esserlo. Come lui, forse.

Mi avvicino alla finestra, ma non capisco come si apre. Non faccio molti tentativi, comunque. Mi interessa più il bagno. È fantastico, bianco, perfetto, con una doccia enorme e asciugamani intonsi. Ci passo tutto il tempo e, quando torna, mi trova in accappatoio con i capelli ancora bagnati. Non posso non notare il suo sguardo su di me. Spero che il calore che sento sul volto non sia anche rossore. Voglio dire, sarebbe stupido. Lui non è chi appare. O forse sì? Meglio tornare alla domanda iniziale.

«Hai un phon?»

Appoggia le buste sul tavolo. «Nello sportello sotto il lavandino, mi sembra.»

«Ti sembra? Non è casa tua questa?» Mi avvicino, attirata dal profumo del cibo.

Solo del cibo. Tutto il resto è illusione. Anche il ritmo del mio cuore, anche la voglia che ho di accorciare la distanza, anche…

«Ho quella stanza solo per gli ospiti, a me non serve.»

Spalanco gli occhi. «Davvero?»

«Davvero. Fai in fretta o si raffredderà tutto.»

Il profumo del cibo è irresistibile e agguanto un pezzo di pizza.

«Non posso aspettare» bofonchio a bocca piena.

Emanuele accenna un sorriso. «Spero di aver scelto bene.»

«Mhhh, mangerei qualunque cosa, in questo momento. Ti dispiace se porto questa fetta di là?»

Sorride. «Dubito che arriverà fino al bagno. A proposito, ho qualche vestito negli armadi.»

«Okay.»

Ha ragione, mi sono già riempita la bocca prima di arrivare alla meta. Trovo il phon e mi asciugo i capelli. Subito dopo, sostituisco l'accappatoio con una maglia bianca e un paio di pantaloncini scuri.

«Anche questi per gli ospiti?» gli domando, raggiungendolo in salotto.

«Sì.»

Ha aperto il divano ed estrae alcune coperte di pile grigio chiaro da un cassetto.

«Ne hai molti? O molte.»

«Di coperte?»

Rido. «Di ospiti, scemo.»

So che ci sarebbero cose più serie di cui parlare, ma stasera voglio svuotare la mente dall'assurda giornata appena trascorsa.

«No, a dire la verità sei la prima.»

Prendo un altro pezzo di pizza. «Bugiardo, tutte le ragazze della scuola ti muoiono dietro.»

Chiude le tende e le luci dei lampioni diventano aloni giallastri oltre le sagome scure dei pini.

«Davvero? Buono a sapersi.» 

Sollevo un sopracciglio. «Ora fingi di cadere dalle nuvole.»

«Diciamo che ho avuto altro a cui pensare.»

«Immagino che non sia importante, visto che puoi assumere tutte le forme che vuoi. Giusto?»

Pronuncio queste parole con leggerezza, ma un'ombra attraversa il suo volto e distoglie lo sguardo. 

«Sì... È vero.»

«Scusa, non volevo infastidirti.»

Scrolla le spalle e la tensione che l’aveva colto si nasconde dietro al mezzo sorriso che mi rivolge. «No, va bene. Ma se mi stai chiedendo di passare la serata con il tuo cantante preferito, devo declinare.»

Scoppio a ridere. «Non ci avevo pensato, Emanuele è perfetto.»

Mi guarda negli occhi in un modo che mi fa dimenticare come si ingoia il cibo e per poco non mi strozzo.

Fa un passo verso di me. «Tutto bene?»

Sollevo una mano e deglutisco. «Sì, troppa fame. Devo masticare con più calma.»

Lui mi rivolge un sorriso un po' incerto e mi porge un bicchiere d'acqua. 

«Perché hai scelto questa forma?» gli domando, dopo averla bevuta quasi tutta.

«Non lo so... È la prima volta che non copio qualcuno, se devo dirti la verità. Non è stato facile, non sono nemmeno certo di esserci riuscito.»

«E perché questa scelta?» insisto.

 Non so che risposta vorrei, forse una giustificazione per le emozioni che mi colgono quando sono con lui. Sono false come il suo aspetto? Illusioni senza fondamento solo un’immagine che ha la stessa realtà di un sogno. Si siede su una sedia e allunga le gambe. Mi accorgo solo in quel momento che ora indossa una tuta grigia con il cappuccio, invece che gli abiti neri che aveva a scuola.

«Volevo che...Beh, volevo che fossi solo io. Che le persone apprezzassero me o meglio...» Sbuffa. «Non riesco a spiegarlo senza sembrare idiota.»

Mi siedo sul divano. «Penso di aver capito. Ma sappi che assomigli a un attore famoso…»

«Stai scherzando?» Spalanca gli occhi, sconvolto.

«Giuro.» Non riesco a trattenere le risate nel vedere la sua espressione.

Sospira e scuote la testa, abbattuto. «Non me ne va bene una.»

«Comunque tutti assomigliamo a qualcun altro.»

«Tu…»

«Io, cosa?.»

«No, niente.»

«Davvero?»

«Sì, sì. Davvero.»

Decido di farmi bastare quella risposta, ma solo perché lo conosco da troppo poco tempo. C’è una parte di me che vuole sapere tutto di lui, vorrei conoscere ogni suo pensiero. Invece no…. tutto quello che so fare è trovare e ricordare codici. Che bel potere inutile.

Sospiro e abbasso lo sguardo. Dove sono? Perché sono qui? Come ci sono capitata? Che succederà adesso? La mia mente è un turbinio di domande e il mio cuore un mare agitato di emozioni. Vorrei tante cose adesso, ma tutte mi sembrano impossibili. La solitudine mi sfiora come un vento gelido e mi stringo nelle braccia. Se la tempesta avesse un nome, stasera sarebbe il mio.


Editing: Priscilla Gullotta (Instagram @libriacuorleggero)


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