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DALL·E 2025-02-03 15.48.11 - A dark, fierce female warrior with long, wavy, vibrant bright

Capitolo 3

«Hai fatto bene a portarla qui» esordì la matrona Eliana, osservando la bambina con i suoi piccoli occhi a mandorla.

Ostentava una calma glaciale, ma Antonia notò il movimento nervoso delle mani ossute che si lisciavano i lunghi capelli neri. Osservò il vistoso anello a forma di serpente che portava all'anulare: senza dubbio era un oggetto adatto a lei. Di certo stava già pensando a come usare quella faccenda per aumentare la sua influenza sugli altri Conservarii.

«È una nuova nata. L'ho portata qui come avrei fatto con un maschio» si limitò a rispondere.

La stanza della matrona era l'unica del Conservarium a possedere un qualche tipo di mobilio. All'interno del loculo, ricavato nella parete, ammiccavano drappi viola di seta e raso. Al centro della stanza, troneggiava un grande divano di velluto rosso. In più, per dar seguito alle sue manie di controllo, la matrona si era fatta installare schedari blindati incassati nelle pareti.

Eliana allungò le braccia ossute verso la bambina. «Ma certo. Ora puoi darla a me, faremo tutto il possibile per preservarne la salute.» 

Antonia annuì con falsa condiscendenza. Avrebbe fatto a meno di lasciargliela, ma non era in grado di prendersene cura. Le ferite che aveva ricevuto durante lo scontro con i preti si erano rimarginate, ma le avevano lasciato una terribile sete. Guardò un'ultima volta la piccola fra le sue braccia e la porse alla matrona.

«E così l'hai chiamata Luna, è un bel nome» commentò Eliana, scoprendo i denti candidi in un sorriso tirato.

Di una cosa Antonia era certa: le interessava tutto di quella bambina, meno che il nome.

«Quale Nutrice si prenderà cura di lei?» le domandò.

Eliana aggrottò le sopracciglia sottili. «Sei molto coinvolta, Antonia. Non mi risulta che tu abbia fatto questa domanda per altri nuovi nati.»

Era vero, da quando era stata trasformata, si era sempre rifiutata di nutrire i giovani dingir con il proprio sangue, lasciando ad altre quel compito. Al solo pensiero di quegli esserini già dotati di piccole zanne che succhiavano sangue al posto del latte materno, le era sempre venuta la nausea. 

«Questo è un caso diverso.»

«Che noi tratteremo con le solite cure.» 

Dallo scambio successivo, Antonia ne uscì perdente. Non riuscì a sapere né il nome della Nutrice, né a fare in modo di ottenere l'incarico. 

Eliana le aveva fatto notare che il suo “coinvolgimento personale” l’avrebbe resa poco adatta a prendersi cura della bambina. Quando Antonia l’aveva sentita pronunciare quelle parole, avrebbe voluto staccarle la testa dal collo. Che ne poteva sapere? Eliana aveva scelto la sua sorte, nessuno le aveva portato via la vita con violenza.

«Potrai vederla in qualsiasi momento lo desidererai, non temere.» 

Antonia era consapevole di non potersi mettere contro di lei. L’aveva già fatto in passato e i risultati erano stati pessimi. La cosa migliore era fare buon viso a cattivo gioco e cercare di mostrarsi collaborativa. 

«Ne sono sicura. I miei rispetti» 

Chinò il capo e si allontanò lungo il corridoio. Non ne poteva più di vivere in quel covo di serpi. Ma non aveva un altro posto in cui stare e, comunque, non era detto che altrove fosse meglio.

Era appena uscita dagli alloggi di Eliana, quando un presentimento la fece  immobilizzare nel bel mezzo del corridoio, mentre intorno a lei le altre dingir si avviano nei rispettivi loculi. E se avesse fatto la scelta sbagliata a portarla lì? No, non c'era altro che poteva fare, la bambina aveva bisogno di cure e il Conservarium era l'unico luogo dove avrebbe potuto riceverle. La stanchezza le stava togliendo lucidità. Doveva riposare, nutrirsi e ripensarci a mente fredda.

Riprese a camminare lungo i corridoi scavati nella terra ed entrò nella sala dei dormitori. Si avvicinò al suo loculo e lanciò uno sguardo al suo interno. Si trattava di un buco scavato nel terreno, niente di più. 

Gli umani avrebbero ritenuto terribile riposare lì dentro, ma tornare alla terra era l'unica cosa che riusciva a darle pace. L'odore di quelle antiche rovine romane la ammaliava da sempre. Era nata nel 1701 e si era spesso rammaricata di non aver potuto vivere quel tempo antico di potenza e splendore. 

Si lasciò scivolare al suo interno e rilassò i muscoli. Un filosofo che andava di moda ai suoi tempi sosteneva che il sonno era un prestito che gli umani facevano alla morte. Al contrario, per lei era come pagare un debito. Moriva ogni volta, per poi essere costretta a risvegliarsi al calar delle tenebre, strappata a quell’oblio misericordioso a cui non aveva diritto. Un dolore che le veniva inflitto a ogni ritorno, senza pietà. 

Quella volta, però, quando riaprì gli occhi, fu il silenzio a colpirla. E subito dopo la sorpresa. Sopra di lei non c’era più il soffitto del dormitorio, ma una lastra di marmo che la intrappolava.

Appoggiò le mani sulla pietra fredda e spinse, ma senza grandi risultati. La pietra si spostò solo di qualche millimetro.

«Ma che diavolo…»

Era troppo stanca e assetata. Aveva bisogno di nutrirsi, o presto non sarebbe più stata in grado di muoversi. Sarebbe rimasta cosciente, intrappolata in un corpo di marmo, una sorte peggiore di quella semivita a cui era stata condannata.

Tastò i bordi del loculo, cercando un passaggio verso l'esterno, ma la terra era dura e schiacciata dal peso della lastra. Spinse con tutte le sue forze, ma tutto quello che riuscì a guadagnare fu solo uno spiraglio di una decina di centimetri.

«Se trovo chi mi ha fatto questo, lo uccido» ringhiò, iniziando a grattare via il terriccio. 

Quando riuscì ad aprirsi un varco abbastanza largo, le sue unghie erano spaccate e sanguinanti. Si spinse fuori facendo leva sui gomiti e si alzò in piedi, guardandosi intorno.

«Non è possibile» sussurrò. 

Il Conservarium era ridotto a un cumulo di macerie. Esaminò gli altri loculi, ma al loro interno non trovò altro che polvere di dingir. Non riuscì a credere fino in fondo che tutte le matrone erano state sterminate. Doveva essere sfuggita agli assassini solo perché le lastre avevano occultato il suo loculo.

Chi poteva essere così potente, o folle, da fare una cosa del genere?

Solo degli esseri umani avrebbero potuto farlo durante il giorno, ma per sbloccare l’entrata del Conservarium era necessario sangue di dingir nelle vene. Non riusciva a venirne a capo.

Corse verso la sala della matrona, trovandola deserta. Gli schedari scavati nelle pareti erano chiusi a chiave. A terra, in un angolo, notò la presenza di altra polvere di dingir. La esaminò e ne estrasse un anello a forma di serpente. Senza dubbio erano i resti di Eliana.

Della bambina nessuna traccia, invece. Forse giaceva morta chissà dove. Quel pensiero le attraversò il petto come una lama di fuoco. Fu tentata di esaminare ogni angolo del Conservarium, ma poi la logica prese il sopravvento. Era più probabile che fosse stata proprio la piccola femmina di dingir la causa scatenante di quell'aggressione. Antonia si passò la lingua sulle labbra aride.

Luna doveva essere ancora viva.

Tornò al suo loculo e lo osservò con maggiore attenzione. La lastra di marmo che aveva spostato giaceva ancora riversa sull'apertura. Spostò lo sguardo verso il colonnato distrutto e aggrottò la fronte. Anche se fosse stato colpito da un'esplosione, non era possibile che una parte di quel marmo fosse caduto così lontano da finire su di lei. Qualcuno doveva averlo spostato. Si inginocchiò e ti concentrò sui suoi sensi, in cerca di altri indizi. All’improvviso lo sentì: odore di sangue umano.

Allungò una mano e la infilò sotto un angolo della lastra.

Ci siamo, pensò quando sentì fra le dita un pezzo di stoffa. 

C’era un disegno sopra, si trattava dello stemma dei Conservarii: due simboli dell'infinito intrecciati insieme a formare un quadrifoglio. Lo avvicinò alle labbra e ci appoggiò la punta della lingua, confermando la sua ipotesi. Chi l’aveva disegnato voleva che lo trovasse. Forse non tutte le femmine erano morte? Magari era stata una di loro a lasciarle quel messaggio, prima di fuggire. 

Ma qual era il contenuto? Oltre a quello di Roma, c’erano solo due altri Conservarii in Italia: a Milano e Palermo. Osservò meglio il disegno e notò un particolare: all'interno di ognuna delle quattro asole che formavano il quadrifoglio, c’era un punto. Si trattava di un modo arcaico di indicare la presenza di un Conservarium. 

Chi l’aveva lasciato conosceva molto bene la storia o era un dingir molto antico. Come colui che gliene aveva parlato per la prima volta, secoli prima. Quel pensiero l’attraversò come una freccia di fuoco. La gola le si chiuse e il mondo vorticò intorno a lei, al punto che dovette appoggiare una mano al terreno per sostenersi. 

No. Non poteva essere lui

Non riuscì nemmeno a pensare a un’altra possibilità, mentre il passato si abbatteva su di lei come una bestia nera pronta a divorarle il cuore. Scivolò a terra, passandosi una mano sugli occhi. Fuggire, ecco cosa doveva fare, voltare le spalle a tutto quello che era appena accaduto, approfittarne per trovare un po' di pace. Ma la verità era che non esisteva al mondo un posto in cui potesse nascondersi dal proprio dolore.

Infilò una mano in tasca ed estrasse l'accendino d'argento. Fece scorrere il pollice sulla pietra focaia e accese la fiamma. Non era in grado di guardarla direttamente, ma osservò i riflessi della luce tremula e il chiarore che le si diffuse intorno, allungando le ombre. Era come se una parte di lei avesse bisogno di quel richiamo dal mondo dei vivi. In qualche modo, sentiva che era la luce a rendere il mondo reale.

Accostò la stoffa al fuoco e la lasciò bruciare fino a che divenne un velo di cenere fra le sue dita. Poi richiuse il cappuccio con uno scatto. Le sale deserte e il silenzio che vi rimbombò all'interno la oppressero. C'erano stati momenti in cui non avrebbe desiderato di meglio: ritrovarsi da sola a guardare la polvere di dingir sparsa ai propri piedi, ma in quel momento non riuscì a goderne. 

Si raccolse i capelli in una coda e imprecò fra i denti. Quella sera il destino non solo le era stato nemico, ma si stava rivelando un vero e proprio carnefice. Di una cosa era certa però: avrebbe ritrovato la piccola. Era un richiamo più forte del desiderio di libertà, più antico dell'istinto di sopravvivenza. Un legame che le scorreva nelle vene come un fulmine di luce fra le nuvole oscure della sua esistenza.

L'unico indizio che aveva era quel simbolo disegnato col sangue. Sapeva a quale luogo apparteneva: lo chiamavano il Labirinto del Veggente.



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