
Capitolo 4
Quando raggiunse la sua meta erano trascorse due notti dalla profanazione del Conservarium. Aveva viaggiato leggera e si era cibata del sangue di animali selvatici, pur di non fare deviazioni al suo percorso. Aveva ancora quel sapore di melma in bocca e avrebbe voluto mettere i denti su un ben altro tipo di pasto. Scacciò quel pensiero dalla mente e spostò la sua attenzione sul luogo in cui si trovava.
Il bosco era silente, l'unico rumore era il fruscio delle fronde smosse dalla brezza umida della notte. L'odore aromatico di muschio e foglie secche si mischiava a quello dolciastro di funghi e terra. Era trascorso quasi un secolo dall’ultima volta che aveva lasciato le mura cittadine. Respirò l'aria per sentirne il fluire dentro i polmoni e la malinconia la attraversò. Quella sensazione di pace era solo un'illusione: lei era lontana dalla terra, non aveva niente a che fare con la natura.
Fece scorrere lo sguardo intorno a sé, cercando di individuare l'entrata del Labirinto. Si trovava di fronte a una parete rocciosa, alta una decina di metri e avvolta da rampicanti, muschio e foglie secche. Scostò la vegetazione ed esaminò la roccia. Eccolo: un simbolo simile a quello disegnato sul pezzo di stoffa.
Accanto alla parete rocciosa si apriva una fenditura che sprofondava nella terra. Varcò la soglia e avanzò con cautela. Si trattava di un vero e proprio dedalo di gallerie e cunicoli. Erano scavate nella terra rocciosa in una serie di ripidi saliscendi. L'umidità e qualche piccola apertura verso l'esterno consentivano al muschio di sopravvivere in alcuni angoli, ma per il resto l'ambiente era del tutto privo di vita naturale. Molto presto anche il muschio sparì, lasciando il posto solo a pareti di pietra su cui scendevano rivoli d'acqua cristallina.
Si diceva che in quel luogo dimorasse un dingir che aveva scelto l'esilio, lo chiamavano il Veggente. Antonia, però, sentì un odore tiepido, quasi umano, non aveva alcun senso. Continuò a camminare seguendo la traccia, finché si trovò di fronte a una porta di legno. Un filo di luce filtrava sotto l'uscio: un dingir non ne aveva certo bisogno.
«Benvenuta, entrate pure, mia signora.» La voce era bassa e tremula.
Antonia non si sentiva chiamare così da secoli. Aprì la porta e la penombra le mostrò un vecchio ricurvo su uno scrittoio, che la osservava attraverso un paio di occhiali con lenti scure. Sul tavolo brillava una candela quasi del tutto consumata da cui lei distolse subito lo sguardo, spostandolo sulla creatura. La sua faccia era così grinzosa che Antonia fece fatica a decifrare l'espressione del suo viso.
Le indicò una sedia di fronte a sé. «Sedetevi, prego.»
Antonia prese posto e si guardò intorno. La stanza era spoglia, a parte qualche vecchia mobilia di legno di castagno.
«Sei tu il Veggente?»
Lui sorrise scoprendo una serie di denti bianchi e perfetti che contrastavano in maniera grottesca con l'aspetto incartapecorito della sua pelle.
«Per servirvi, mia signora.»
Aveva domande più pressanti, ma la curiosità riguardo quella creatura prese il sopravvento.
«Perché indossi le lenti scure?»
Una risata gli sollevò le spalle scheletriche. «La mia condizione me lo impone. Anche voi dovreste provare, se volete guardare direttamente una fiamma.»
Antonia fu colpita da quel riferimento che lui non poteva conoscere, ma non ne diede segno.
«Non ne ho bisogno» si limitò a rispondere.
«Come preferite.»
Il vecchio soffiò sulla fiamma e si sfilò gli occhiali. Che razza di creatura aveva davanti? Riconobbe i tratti tipici della sua razza: gli occhi senza sclera e la pelle, sottile e pallida. Ma c'era dell'altro in lui. I dingir erano freddi come la morte, il battito del cuore era quasi impercettibile e il respiro poco più di un leggero alito. In loro era più il ricordo di ciò che era stato a far funzionare polmoni e cuore, non la reale necessità. Per questo motivo, la mancanza di ossigeno poteva far perdere i sensi a un dingir, ma non ucciderlo. Allo stesso modo, se il cuore avesse smesso di battere, sarebbe caduta in una specie di coma.
Nel periodo della trasformazione, aveva sentito il corpo combattere con violenza. A tratti aveva percepito il cuore palpitare in modo irregolare e il respiro farsi superficiale, dandole l'impressione che tutta l'aria fosse stata risucchiata via. In quei momenti, le formicolavano le mani e i crampi la facevano urlare dal dolore. Era come se la morte si fosse presa la sua carne un pezzo alla volta. Per una settimana non aveva fatto altro che tentare di vomitare il groviglio vuoto di bile e sofferenza che aveva nello stomaco. Nel Veggente, invece, poteva percepire il calore della pelle, il cuore che batteva con forza e il respiro reale e profondo.
«Hai un nome?» gli chiese.
«Mi chiamo Rodrigo, sono l'ultimo figlio di Lucrezia Borgia, morta subito dopo avermi dato alla luce.»
Antonia sollevò le sopracciglia, sorpresa. Lucrezia Borgia era morta nel 1519, il che stava a significare che quella creatura aveva quasi cinquecento anni. O stava mentendo o era certo che fosse una specie di dingir, nonostante le strane apparenze.
«Com'è possibile, i dingir…»
«Non invecchiano?» la precedette. «Tutti invecchiamo, mia signora, in un modo o nell'altro. Per quello che riguarda me, non fui nutrito dal sangue infetto dopo la mia nascita. Mia madre non si rassegnò mai a quello che le era accaduto e, prima di farsi uccidere, ordinò a coloro che si presero cura di me di lasciarmi quel minimo di umanità che mi restava. La mia trasformazione non fu mai completata.»
Secondo le regole dei Conservarii, non era possibile rinunciare al Primo Sangue ma, probabilmente, l'influenza di una madre così potente aveva reso possibile quell'eccezione. Antonia odiava essere la creatura che era, ma confrontata con quella di Rodrigo la sua condizione non era certo la peggiore. Era forte e veloce e i suoi sensi erano più sviluppati di qualsiasi animale. Era il predatore più letale del pianeta, l'apice della catena alimentare. Rodrigo era un ibrido con solo svantaggi dalla sua parte: debole come un umano e relegato nella notte come un dingir.
«Allora ditemi, mia signora, cosa vi ha portato da questo vecchio pazzo eremita?» le chiese, intrecciando le mani ossute.
«Il Conservarium di Roma è stato profanato» rispose lei, senza giri di parole.
Antonia non sapeva fino a che punto il vecchio fosse coinvolto e voleva osservarne la reazione a quella notizia. Rodrigo la guardò per qualche secondo negli occhi prima di ribattere.
«Mi rincresce. E come posso aiutarvi io in codesto frangente?»
«Davvero non è una notizia rilevante questa per te?»
Il vecchio scrollò le spalle. «Non è la prima volta, né sarà l'ultima che un Conservarium viene abbandonato. Guardatevi intorno, un tempo questo era il più antico del centro Italia. Ora ne restano solo macerie.»
«Non ho detto abbandonato. Ho detto profanato. Tutte le dingir al suo interno sono morte. Sono convinta che ci sia di più di un banale tradimento dietro.»
«Oh beh, io non sono stato» si difese Rodrigo, divertito.
Niente da fare. Dietro quel parlato forbito e cortese si nascondeva solo un vecchio pazzo rimasto da solo per troppo tempo.
«Ho perso il mio tempo venendo qui, me ne vado» sbottò Antonia alzandosi in piedi.
«Perché, invece, non ti rimetti tranquilla e mi racconti tutto dall'inizio?» le chiese il Veggente, cambiando registro all’improvviso.
Antonia appoggiò le mani sul tavolo, non voleva perdere altro tempo. «Pochi giorni fa ho fatto nascere una femmina, viva. Qualcuno mi ha lasciato un messaggio. Dovevo venire qui, ma non so perché.»
«E tu non hai idea di chi possa essere.» Il tono era a metà fra una domanda e un'affermazione.
Antonia sì raddrizzò e fece qualche passo nervoso nella stanza. Ancora una volta un solo nome arrivò alla sua mente, ma non si concesse di pronunciarlo ad alta voce.
«Non ti capisco, vecchio, dimmi quello che sai.»
«Hai mai sentito parlare del Sarim-Dub?»
Antonia aggrottò la fronte e scosse la testa, non si aspettava quella deviazione al discorso.
«No, di che si tratta?»
«Del più antico testo sulla storia dei dingir. Fu ritrovato intorno al 1930 a Ur, un'antica città sumera in Iraq.»
Non si era mai interessata di archeologia, ma conosceva di fama quella zona. Era interdetta ai dingir dopo che un gruppo di arabi ben organizzato si era fatto la fama di cacciatori di succhiasangue. Erano dei pazzi fanatici, ma stavano diventando una vera e propria spina nel fianco.
«Che c'è scritto sul Sarim-Dub?» gli domandò.
«Conosco molto poco il sumero antico. Tutto quello che ho capito da quei simboli è che vi si narra di come la progenie dingir venne alla luce.»
Antonia scrollò le spalle. «Non capisco come questo possa aiutarmi.»
«Trovalo e arriverai alla bambina.»
La dingir sollevò un sopracciglio, non era molto, ma era qualcosa.
«Dov'è ora il libro?»
«Il libro? Ah, il Sarim-Dub, intendi.» Si lasciò andare a una breve risata prima di proseguire. «È stato rubato dal British Museum che l'aveva in custodia all'epoca. Non so altro.»
Antonia si passò la lingua sulle labbra, nervosa. Cosa c’entrava quel libro con la bambina? Perché qualcuno voleva farglielo sapere? Si sentiva una pedina in un gioco di cui non conosceva le regole. Doveva rimettere a posto i pezzi, non aveva altra scelta.
«Tu sai chi mi ha lasciato quel messaggio, non è vero?»
Il vecchio estrasse un pacchetto di fiammiferi, ne tirò fuori uno e lo usò per accendere di nuovo la candela. Poi agitò la mano per spegnerlo.
«Biblioteca Vaticana, sezione Manoscritti. Sono certo che lì troverai qualcosa su quello che ti interessa.»
«Cosa...? In Vaticano?»
Antonia imprecò a mezza bocca, Di tutto aveva voglia tranne di andarsi a cacciare in un trogolo di preti. Ma che altra scelta aveva?
«Se è una trappola, spera che ti sia riuscita bene, vecchio. Perché, altrimenti, tornerò qui a fartene pentire.»
Il vecchio stirò le labbra in un sorriso sbilenco. «A tua disposizione, mia cara. Spero di rimanere vivo abbastanza da rivederti di nuovo.»